Posts Tagged: Fotografia

THE GAMBLER – quando l’azzardo gioca con la vita

Due facce di una stessa medaglia: questo è il reportage The Gambler che il fotografo Marco Dal Maso ha realizzato nel corso del 2012, indagando non solo l’ambiente del gambling, del gioco d’azzardo, ma trovandosi anche faccia a faccia con chi, con estremo coraggio e grande sacrificio, intraprende il percorso di cura dalla dipendenza dal gioco.

Individui, quelli ritratti negli scatti della prima parte di The Gambler, frequentatori di centri scommesse del nord Italia, di sale accoglienti o infimi locali colmi di ammiccanti slot machine, di casinò di lusso in grandi città o di circoli del poker di provincia. Tutti lusingati dalla dea bendata, alla ricerca di una vincita fortuita che permetterà loro di cambiare per sempre vita.

Nelle spire del Gioco d’Azzardo Patologico finiscono migliaia di persone ogni anno, per molti dei quali spesso è l’incapacità di fermarsi, di riconoscere il limite tra il divertimento e l’ossessione, che comporta lo sviluppo della dipendenza dal gioco, classificata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come una vera e propria dipendenza patologica “senza sostanza”.

L’attrazione che suscita la “vincita facile”, affiancata all’aumento di situazioni di disagio economico, ha fatto sì che, in Italia, dal 2004 al 2011 vi sia stato un aumento della spesa per il gioco del 222%, con una spesa totale, nel solo 2011, di quasi 80.000 milioni di euro.

Il reportage ricalca le fasi classiche che conducono il giocatore alla dipendenza: dapprima ammaliato dalla promessa di successo, si imbatte in vincite fortuite, alle quali fanno subito seguito perdite sempre più ingenti. Il tentativo di recupero è inesorabile: per far fronte alle perdite il giocatore scommette somme di denaro sempre maggiori, trascinandosi verso l’inevitabile dipendenza. Le conseguenze dei gesti che lo porteranno a nascondere la propria situazione coinvolgeranno non solo la sfera economica, ma anche quella famigliare e affettiva.

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Venetudine e Disoccupatia. Non si sa cosa si cerca, si sa cosa si trova?

Il Take Care Corner sarà ospitato all’interno di un padiglione fieristico. Un edificio in perfetto stile industriale, che non si differenzia granchè in struttura ed aspetto dai numerosi capannoni che costellano la maggior parte del territorio veneto. Verona non fa eccezione alle altre città della regione: l’economia rosea, anzi rubiconda, del nordest produttivo, quella dei piccoli e medi imprenditori, delle ditte familiari a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta, del benessere diffuso e anche un po’ ostentato, è ormai cosa del passato. Anche qui si risente fortemente della crisi. C’è chi già ne parla citando i “bei tempi”. L’erba che cresce sul piazzale della fabbrica è il primo sintomo del declino, del tracollo, del fallimento.

Ad una fiera dell’arte non penso non ci sarà spazio per fare alcune riflessioni in merito ad una questione piuttosto banale se vogliamo, ma pur sempre un “evergreen”: dove stiamo andando? Chiaro, le elucubrazioni maggiori saranno in ambito artistico, ma non credo che l’andamento del mercato dell’arte possa svicolarsi di molto dall’andamento economico generale; nemmeno lui può sottrarsi alle varie crisi, alle spending review, ai tagli di fondi, alle cinghie che stringono: la cultura piange lacrime amare. Io non vorrò di certo intristire il Gentile Pubblico che verrà ad assistere ai talk del Corner di Olivares cut, ma stimolarlo a pensare sì, quello lo posso fare.
E parto sin da ora, non lasciando tutta la sorpresa alla Fiera ma aprendo già qualche porta affinchè si possa spiare dalla fessura, scostando una tenda, presentando un po’ due progetti, entrambi opera di due ospiti del Corner, che con Verona e con l’attualità hanno molto a che fare: Venetudine e Disoccupatia.

Questi i titoli di due lavori ampi (uno dei quali work in progress ma già con una sua identità precisa), diametralmente opposti per approccio, riconducibili ad uno stesso fine, quello del ‘raccontare’: entrambi lasciano un vago sapore amaro in bocca. Più che il tema affrontato è il modo in cui questo viene elaborato, concettualmente prima, esecutivamente poi, che scuote.


da “Venetudine” – Fratelli Calgaro

Venetudine è quasi uno stato d’animo. Ed esce dall’obiettivo sagace della Fratelli Calgaro, coppia di fatto composta dal fotografo e il filosofo che convivono all’interno di uno stesso corpo, quello di Beppe Calgaro.
Dal suo peregrinare per la campagna veneta, dopo anni di messinscene dalla perfezione maniacale, ecco apparire una collezione di “objet trouvé”: paesaggi vagamente riconoscibili – come nei Capricci del Canaletto, nei quali ognuno rivede un angolo della Venezia che conosce – da noi che queste regione ce l’abbiamo sotto pelle. Vedute talmente reali (lo sono!) che un angolo della bocca si solleva in un quasi impercettibile sorriso, a riprova che quello che si sta guardando lo si comprende…ma non del tutto: in Venetudine ci imbattiamo in scene che si appiccicano addosso alla mente come la nebbia umida di novembre fa con i cappotti: sembra tutto in ordine ma c’è un particolare che disturba, si convive con il paradosso come fosse la consuetudine.

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L’arte a volte (è) sporca

Quando si inizia con l’allestimento di una nuova mostra si devono tenere conto di parecchie variabili: in primis le dimensioni dello spazio, poi la disposizione dello stesso; bisogna prestare attenzione a quello che sarà il percorso espositivo, dov’è situata l’entrata e se quella sarà coincidente con l’uscita; se c’è bisogno di utilizzare segnali o escamotage più sottili per far sì che il visitatore vada esattamente dove tu vuoi che vada, o prendere possesso della consapevolezza che girerà comunque in modo sconclusionato per la mostra anche se ti sarai premurato di marcare il territorio con scie luminose lungo tutto il cammino. Fare caso all’illuminazione che dovrà essere utilizzata, che sia della giusta intensità, alla giusta distanza, che non dia fastidio allo spettatore e che non provochi danni col calore a quelli che sono gli “oggetti del contendere”, ai quali dedicherai maggiormente la tua attenzione: le opere.
Tutte le cose appena dette non avrebbero alcun senso se non fossero messe in stretta relazione con le opere e viceversa: è il “loro” rapporto con lo spazio che ci deve preoccupare, il “loro” rapporto con lo spettatore che ci costringe a riflettere sulla disposizione di ogni singolo pezzo nello spazio.
Io, per cominciare, uso questo metodo: scelgo i due, tre (improbabile averne di più, a volte) “masterpieces” e, studiato accuratamente lo spazio espositivo e tutti gli annessi e connessi, trovo loro la giusta dimora. Dopodichè avviene una sorta di giustapposizione, come se l’allestimento fosse la versione artistica del tetris, di tutti gli altri lavori di cui dispongo.
Ma cosa succede quando, a mostra avviata, ad inaugurazione raffreddata, ben lungi dall’essere vicini alla data del finissage, improvvisamente uno di questi pezzi forti, pilastri del lavoro curatoriale (per un motivo che possiamo riassumere con la famosa formula “cause di forza maggiore”) deve essere rimosso? Decade il valore di un intero lavoro? Si dovrebbe rivedere l’intero progetto espositivo? Si tenta di mascherare il buco con qualcosa di ripiego o piuttosto si lascia che il vuoto acquisisca il valore di antisimulacro dell’opera stessa?
I Fratelli Calgaro, con l’Arte sporca, mi suggeriscono una delle soluzioni possibili. A mio parere l’unica che, a questo punto, abbia veramente un senso.

L’arte sporca, Fratelli Calgaro

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MIND THE G.A.P. – IL GIOCATORE

Dal 2012 curo il progetto espositivo MIND THE G.A.P. – IL GIOCATORE, basato sul reportage sul gioco d’azzardo THE GAMBLER, realizzato dal fotografo Marco Dal Maso (www.marcodalmaso.it/thegambler).

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