Nell’estate del 2013 per la prima volta Dolomiti Contemporanee varca la soglia della vecchia scuola elementare di Casso, l’unica del paese e abbandonata dal 1963, e la fa diventare il suo quartier generale, piegando quel suo progetto artistico nomadico a parentesi inaspettatamente stanziale.
Da quel momento le mostre realizzate all’interno della scuola (che resa agibile con un sapiente restauro conservativo prese il nome di Nuovo Spazio di Casso) sono state numerose e, se riguardo indietro e sfoglio virtualmente il catalogo mentale che le raccoglie, vi trovo un minimo comune denominatore: quello di non prescindere dall’instaurare un dialogo tra le singole ricerche artistiche e il territorio che le accoglie, e diventa scenario esplorativo, tanto dal punto di vista sociologico quanto storico e morfologico. Come le numerose collettive realizzate sinora, così il concorso Two Calls, da poco concluso, fanno parte di un cantiere mai esausto, una piattaforma tanto virtuale quanto concreta all’interno della quale trovano dimora dibattiti sulla rilettura del paesaggio attraverso la contemporaneità artistica.
Sono molti gli artisti che hanno, negli anni, interpretato le residenze a Casso come funzionali alla creazione di legami con il luogo a partire dai suoi abitanti, ertani e cassani, che portano nelle pieghe della propria pelle e nei racconti delle proprie storie la memoria di una Storia più grande, quella che sconvolse l’andamento regolare di vite umane e di un paesaggio inalterato da secoli, modificandone profondamente gli assetti e gli equilibri.
E’ impossibile dimenticare dove ci si trova. Se si guarda a sud, fuori dalle finestre ampie dello Spazio, ci si trova di fronte al Toc, quel monte fragile dal nome onomatopeico che franò gran parte del suo involucro più esterno di pietra e terra dentro l’invaso d’acqua arginato dalla diga sul Vajont, provocando un’onda distruttiva.
Lui è sempre lì, con un fianco scoperto, dal 1963. E non è facile il compito che si è prefissa fin da subito Dolomiti Contemporanee: smetterla di parlare di morte, e trovare parole nuove, iconografie nuove, in grado di immaginare un futuro.
Le riletture di queste memorie storiche si vanno a fondere con il vissuto e le pratiche dei singoli artisti, dando vita a reinterpretazioni di un patrimonio segnico appartenente al vissuto individuale, identitario.
In questi giorni si è inaugurata una nuova collettiva, a cura di DC in collaborazione con Stefano Moras, intitolata To’nòn ignà. Questo termine ha, per le genti del Vajont – nel dialetto locale -, il valore di un “tornare qua”, dove l’elemento spaziale scinde dall’elemento temporale. Se To’nòn ignà indica la volontà di tornare alle origini, e da un lato si intende il luogo geografico di provenienza, dall’altro è il costrutto culturale ad essere ricercato, agognato, plasmando di volta in volta l’”hic et nunc” in un risultato che è una summa di tutti i passaggi effettuati in un determinato luogo in momenti distinti.
La ricognizione territoriale compiuta dal gruppo di artisti nel tempo della residenza, guidata dal geologo Emiliano Oddone di Dolomiti Project, ha permesso una presa di possesso quasi fisica della morfologia delle pendici nude del Toc, e il sopralluogo è divenuto terreno fertile per la ricerca, fin dal prelievo di elementi rinvenuti in natura che diventano parte integrante dell’opera artistica. Questo lavoro d’assieme ha permesso una crasi silenziosa e coerente a livello espositivo, che consente un’amplificazione del tema di fondo.
Dislocate sui tre piani del Nuovo Spazio di Casso troviamo le opere degli otto artisti in mostra: le tavolette dipinte di Veronica De Giovannelli aprono il circuito, ritraendo l’interazione tra microcosmo e macrocosmo, re-visione delle pratiche divinatorie antiche, che scrutavano nella natura i presagi di un destino ineluttabile. I segni della frana li ha impressi in fogli di carta realizzati direttamente sul monte, nei frottage che compongono la serie “Litogenesi”.
Evelyn Leveghi ha raccolto materiali “preziosi”, durante i sopralluoghi, e in mostra li ritroviamo in fragili mensole da wunderkammer, una collezione inusuale di reperti minerali e vegetali all’interno di prismi e semisfere di gelatina alimentare. Leveghi usa il cibo quale medium principale della sua ricerca, e ha trovato nella gelatina la sostanza più adatta per esaltare le caratteristiche dei frammenti di pietra raccolti, delle bacche o dei fiori trovati. Ha invitato il pubblico a cibarsi di piccole pietre di cioccolato, repetita dolci di un piccolo pezzo di montagna, e di scorze di carote e patate fritte e poste come un cimelio sopra una lastra di pietra, piccolo altare portatile, di “waste” nobilitato a nutrimento.
Stefano Moras, nel ritrarre la Montagna, ha abbandonato qualsiasi riferimento realistico, lasciando alla pittura di esprimersi attraverso passaggi cromatici antinaturalistici. Una scelta in forte contrasto con le immagini fotografiche d’archivio usate da Pamela Breda, che attua una frattura nelle vette ritratte strappando semplicemente il supporto cartaceo, in un gesto che ha il peso dell’ineluttabile.
La zolla di terra ricomposta da Moras in “Falde” poggia su un fascio di carta Repap impaginata come una pietra e che della pietra ha tutte le caratteristiche chimiche, giocando sul concetto di resistenza e ciclicità della materia. Il pubblico è invitato ad annaffiare la zolla, contribuendo a rinverdirla, prato-à-porter.
Elementi dalla crescita lineare come gli alberi sono portati a confondere le fronde con le proprie radici, nell’installazione di Lara J. Marconi, che forza il punto di vista ribaltando l’andamento naturale delle cose, specchio degli eventi passati. Accosta un “diario di viaggio”, uno sketchbook denso di suggestioni segniche, a porzioni di lastre incise, a piccole case in fogli di carta cucite a mano, a pattern che scivolano fuori dal contorno dei pannelli appesi e macchiano il muro. Un piccolo mondo onirico nelle sfumature di un bianco appena rivelato.
Lorenzo Commisso in “Reflecting” si interroga sull’ambiguità del senso (inteso come direzione) dell’immagine, mescolando icone e iconografie della montagna.
Roberto Da Dalt ha archiviato all’interno di arnie vuote le conformazioni geologiche dell’area traslate in pannelli di gesso: piccoli abissi portatili, le cime e le vallate come nettare che nutre un paesaggio, composto – in una seconda installazione – da modelli di architetture paradossali.
Tra numerose opere che partono dal paesaggio per tornare al paesaggio, alcune di queste si staccano per riportare un equilibrio legato alla vicenda dell’umano: Nicolas Magnant ha riassemblato senza soluzione di continuità gli oggetti e i materiali raccolti tra i due paesi nel periodo di residenza, dando vita una installazione che altera il senso delle singole parti. Al centro della sala l’opera ricorda le “stacking balance”, torrette di pietre accatastate in equilibrio precario, ma pur sempre mantenuto. Delle pietre però rimane soltanto l’idea, la forma, laddove il peso e la sostanza vengono alterati dalla materia.
Equilibrio precario che si riflette nelle tensioni mai completamente sopite tra gli abitanti dei due paesi limitrofi. Leveghi propone attraverso l’opera partecipativa “Cum-panis” l’incontro tra ertani e cassani, ai quali ha donato parti uguali di pasta madre per poter realizzare forme di pane da condividere al termine della mostra con gli astanti. Un elemento di condivisione “in potenza”, ma che necessita di uno sforzo (da parte dei riceventi) che va oltre l’intenzione dell’artista, al fine di portare a compimento l’opera, e cambiare lo stato delle cose.
In un’installazione molto toccante, Pamela Breda espone a pavimento alcune scarpe spaiate rinvenute in un rudere di Erto dall’artista stessa. Le calzature logore e polverose trovano, nell’opera di Breda, un pendant in una copia odierna di ciascuna scarpa, realizzate da sapienti artigiani, per tentare di colmare l’assenza, il vuoto della perdita che sconvolse, nella tragedia, anche la quotidianità degli oggetti.
********************
To’nòn ignà
Mostra collettiva
22 agosto – 26 settembre 2015
A cura di Dolomiti Contemporanee, in collaborazione con Stefano Moras
Artisti: Pamela Breda, Lorenzo Commisso, Roberto Da Dalt, Veronica De Giovannelli, Evelyn Leveghi, Nicolas Magnant, Lara J. Marconi, Stefano Moras.
“Per attraversare la Colonia hai bisogno di una mappa”. Elisa prende dalla borsa un foglio piegato in quattro e lo apre davanti ai nostri occhi. Credo che neppure con quello sarei in grado di destreggiarmi tra il dedalo di corridoi vuoti che mi si para davanti. Ma a tentare l’esplorazione non sono io, ma il compagno di Maria, con la piccola Clara vestita da orsetto infilata nel marsupio e per niente infastidita dal freddo che investe anche la Colonia. Padre e figlia si incamminano lungo la rampa, mentre io ed Elisa riprendiamo la nostra chiacchierata. Elisa Bertaglia, che domani inaugurerà Plateau project, è una degli artisti che Dolomiti Contemporanee ospita nel programma estivo di residenze d’artista, attivato da un paio di mesi all’interno del nuovo “laboratorio in ambiente” intitolato Progetto Borca. Le ultime due settimane l’hanno vista all’opera con un lavoro site specific nella “capanna media” della Colonia dell’ex Villaggio Eni. Capanna che in realtà è uno stanzone con un tetto a capanna, dieci metri per dieci di pavimento, e assi di legno a coprire gran parte del cemento della muratura. Il linoleum, un tempo a venature viola e gialle, è sbiadito dalla luce entrata ininterrottamente da cinquant’anni dalle vetrate ampie, ed è ricoperto per intero da uno strato di polvere che completa la colorazione ormai virata in un grigio azzurrato.
Borca non è un luogo facile. Tra gli anni 60 e 70 Enrico Mattei e l’arch. Gellner (con l’aiuto di Carlo Scarpa) diedero vita ad un’incredibile progetto di architettura e urbanistica sociale, in una spinta paternalistica nei confronti dei dipendenti Eni, che previde la realizzazione, su un’area di 400mila metri quadrati, di un villaggio estivo comprendente 263 villette unifamiliari – immerse nel bosco che ha sostituito il ghiaione alle pendici dell’Antelao – un camping a tende fisse in legno (invaso ancora oggi di ragazzini chiassosi per tutto il periodo estivo), e il grande monumento silenzioso della Colonia. Quest’ultima è un complesso di 30mila metri quadrati composto da 17 padiglioni, 4 km di corridoi, un’immensa aulamagna vetrata con un lampadario degno di una sala da ballo surrealista, con docce, mense e dormitori, che fino agli anni ottanta ospitava contemporaneamente centinaia e centinaia di bambini, per finire poi in uno stato di completo abbandono. Questo fino a pochi mesi fa, quando la proprietà dell’imponente complesso decise di coinvolgere Dolomiti Contemporanee in un progetto di riconsiderazione dell’area, sì da trovare nuovo scopo agli stabili abbandonati ormai da troppi anni.
Dolomiti Contemporanee, avvezza a instaurare dialoghi proficui tra l’ambiente dolomitico e gli spazi artificiali inattivi o giacenti in uno “stato di stupidità” (fermi lì a far nulla, vuoti senza più motivo d’essere) – come dice il suo curatore, Gianluca D’Incà Levis – non si è fatta spaventare dall’imponenza del luogo, nè dalle aspettative su ciò che potrà o non potrà diventare. Un luogo pieno di storia che fa parte del nostro Paese (l’uccisione di Mattei fu la causa principale dell’arresto dei lavori di ampliamento del Villaggio), un “case study” di architettura sociale, con un’attenzione per i materiali e le forme tale da assicurare un’armonica integrazione dei complessi edificati con la natura circostante. Eppure i tanti anni di disuso sono sfociati spesso in dibattiti sulle sorti del villaggio, e una campana suonava anche per l’abbattimento incondizionato delle strutture. Ma il cane a sei zampe (impresso su quasi ogni oggetto, all’interno della Colonia, dalle tazze alle posate alle coperte), seppure un po’ acciaccato e polveroso, difficilmente si farà cacciare via…
Elisa è alla Colonia dalle sette di mattina. Arriva in auto (dorme poco più in sù, in una delle villette gellneriane, la 171, dedicata alla residenza degli artisti), spalanca il grande portone d’ingresso e, aperta la porta che dà sul refettorio della Colonia, percorre alcuni minuti i corridoi semibui. Sono rampe che seguono l’andamento del terreno fuoristante, su cui posa le fondamenta la colonia, e il declivio la fa scendere di diversi metri rispetto il piano d’ingresso. Si ferma a metà della discesa, dove si apre la “capanna media”, e riprende a lavorare, ripetendo giorno dopo giorno gli stessi gesti e rispettando il preciso piano di lavoro che si è data. Rimarrà lì per dieci giorni, divide il pavimento in dieci rettangoli uguali e ogni giornata sarà dedicata alla lavorazione di uno di essi. Dalle sette di mattina alle sei di sera, cioè sfruttando tutta la luce naturale che entra con difficoltà dalle vetrate della capanna. Il bosco fuori (alberi sfuggiti al controllo dell’Uomo) è così fitto da creare una cortina. Se piove, poi, Elisa è costretta ad accendere una pila per aiutarsi a vedere meglio. Pranza lì con qualche biscotto o dei crackers (il pasto vero è la sera, quando cena nella mensa del campeggio) quasi neppure bevendo, per non dover uscire dalla colonia con il rischio di chiudersi fuori nel bosco. E’ lì da sola. E disegna.
Fuori ci sono poco più di sei gradi, e dentro uguale. La capanna non è riscaldata e i vandali che bazzicano di notte per la Colonia abbandonata hanno rotto la finestra più alta. Oltre al vento entrano tutti i rumori del bosco. Elisa ha cinque o sei maglie addosso. Si accuccia sopra un maglione per ripararsi dal freddo del suolo e disegna. Disegna sul pavimento, sulla coltre di polvere che il tempo ha depositato, e lascia a sua volta una traccia, leggera, effimera e quasi evanescente, del suo lungo, costante e silenzioso passaggio lì. Disegna, come fosse una texture, centinaia di piccole bambine fluttuanti, rannicchiate su loro stesse, come stessero un po’ dormendo, un po’ facendo delle capriole nell’aria, un po’ nuotando. Un esile tratto a carboncino ne delinea i corpicini, per ciascuna segna i contorni del costumino da tuffatrici. E per ognuna di esse cela il capo, nascosto da una biscia, che pare avvolgerla come una morbida sciarpa. Quel prezioso, delicatissimo “mandala” di grafite è stato pensato da Elisa per non durare. Chi ci camminerà sopra un po’ alla volta lo distruggerà. Un lavoro organico – lo chiama lei – sopra lo sporco, la patina del tempo; di mimesi, perchè si scorge solo con uno sguardo attento, confondendosi tra le venature e i solchi del linoleum; che ha chiamato Plateau coniugando l’idea dell’altipiano montano a quella di “pavimento d’altitudine”, su cui ha scelto di lavorare, pianoro posto alla sommità di una delle tante rampe della Colonia; una distesa di polvere dalla quale emergono le bambine, giocose, selvatiche (la biscia come elemento che le riconduce alla loro parte più viscerale, istintiva), eco delle presenze chiassose di un tempo che abitavano per i mesi estivi quegli spazi. Ora, un’opera così integrata con lo spazio, che viene percepita come simbiotica con l’ambiente, non invasiva ma fortemente presente, non è che l’esito di quello che io considero il “vero” lavoro di Elisa Bertaglia alla Colonia: la scansione del tempo che lei ha dedicato alla realizzazione dell’opera. Quelle nove, dieci ore al giorno della sua esistenza che ha dedicato alla realizzazione dell’opera, avvolta dal silenzio più totale, nel freddo rigido di un agosto invernale, in una solitudine che non l’ha mai spaventata nè le ha mai pesato (della quale invece è andata fortemente in cerca) sono parte dell’opera stessa quanto le bambine di grafite.
Questa è la mia visione dell’opera, chiaramente, letta all’interno del contesto esperienziale di una residenza d’artista forse un po’ fuori dagli schemi; avendo conosciuto l’artista ed avendo instaurato con lei un legame empatico in un tempo brevissimo, fatto di confidenze e considerazioni profonde sul lavoro come trasmissione delle aspettative, tensioni, ricordi ed emozioni personali. Probabilmente è quello che ogni artista cerca di trasmettere, all’interno del proprio operato. Ma, chissà perchè, io l’ho capito così chiaramente solo lì, di fronte ad Elisa e alle sue bambine dell’altopiano.
******************************************************************************* info dal sito www.progettoborca.net Domenica 31 agosto, alle ore 15.30, alla capanna media della colonia dell’ex villaggio eni di borca di cadore, verrà inaugurata l’opera grafico-installativa plateau project di elisa bertaglia. L’artista ha realizzato il proprio lavoro attraverso uno dei programmi di residenza attivati per l’estate 2014 da dolomiti contemporanee con minoter per progettoborca. Appuntamento alle ore 15.00 di domenica davanti all’ufficio vendite del villaggio.
(Un estratto di questo post è pubblicato su ARTRIBUNE)
The inner outside (bivouacs) apre al Nuovo Spazio di Casso la stagione espositiva 2014-2015 di Dolomiti Contemporanee con una collettiva, a cura di Gianluca D’Incà Levis, che propone diversi piani di lettura del concetto di bivacco. Bivacco che non è contenitore ma propensione (mentale, ancor prima che fisica) alla permeabilità, è condizione minima necessaria all’idea di protezione.
Al tempo degli “scout”, usavamo erroneamente l’espressione “fare azimut” per giungere da un punto A ad un punto B attraverso il percorso più breve possibile. E, se la geometria ci insegna che la raffigurazione di questo percorso ottimale è la linea retta, compiere nel mondo reale questo percorso è quasi sempre improbabile.
Questo esercizio di attraversamento lo compivamo con costanza e tracotante determinazione in tenera età, “scoutini” su per le montagne, zaino in spalla, tirando dritti come dei muli coi paraocchi a tagliare di netto i tornanti. Spesso ci si arrampicava come si poteva, sorreggendosi ai rami delle piante che ci si paravano davanti, affondando le mani nude nella terra smossa, valicando massi puntuti con i nostri scarponi pesanti. E nel fermarci a passare la notte, in uno di questi “azimut”, si intentava un bivacco come si poteva. Niente radure, niente pianori, così ci si accontentava dello spazio del sentiero appena battuto, e con qualche paletto puntato a sghimbescio su terreno, una cerata o un poncho come copertura e qualche buon metro di cordino a fermare il tutto, ci si apprestava a passare la notte con un occhio aperto e uno chiuso, con le orecchie tese ad ascoltare i rumori del bosco, cercando di riposare seppure stesi su una superficie nemmeno lontanamente piana, nemmeno lontanamente comoda.
L’iconografia di un bivacco non è semplice da definire: i giacigli su cui riposavano le truppe che nell’antichità e durante il medioevo scorrazzavano per mezza Europa talvolta non prevedevano alcun tipo di copertura. Gli uomini giacevano sdraiati a terra, fianco a fianco, coperti dei soli vestiti aspettando che facesse chiaro per ripartire. Gli accampamenti più organizzati disponevano di tende, e assumevano le fattezze di piccole città ordinate. Ma che si sia in guerra o, più verosimilmente qui, in alta montagna a battere sentieri in quota, l’istinto a proteggersi porta a ricreare una nicchia entro la quale stare, un ambiente essenziale, la ricerca dell’idea di interno che differisca da un esterno che è “altro”, un luogo dove ritrovarsi, come si stesse nel grembo materno.