Posts Tagged: Arte Contemporanea

MARINA, IL SOLDATO DELL’ARTE

“Per il mio lavoro sono come un soldato dell’arte: faccio sempre quello che deve essere fatto. Ma poi quando torno a casa divento una bambina piccola che vuole solo essere amata e questa è la grande contraddizione che devo vivere nella mia vita. Quindi non è vero che vivo in una performnce contina di 24 ore. C’è una parte di me che vuole nascondersi al mondo e piangere, senza essere vista.”*

Ecco il motivo per cui ho scelto di cominciare la rassegna sull’arte contemporanea di SCHERMI PIATTI con la figura di Marina Abramovic. Perchè attorno a lei si è creato un alone di aspettative, la fama e il successo (che non le dispiacciono – a chi dispiacerebber, d’altro canto?), è tanto osannata quanto aspramente criticata per il suo “metodo” che porta avanti con la scientificità di un dottore, ma nonostante tutto ciò è anch’essa vulnerabile, e nonostante abbia fatto dell’arte la sua vita, i due aspetti confliggono, lottano tra di loro, in una battaglia inesausta.
Il “soldato dell’arte” l’ha portata negli anni – dagli anni Settanta ad oggi – a spingere i propri limiti di resistenza e sopportazione sempre un po’ più in là, e in tutta la sua ricerca l’aspetto umano è preponderante: Marina indaga se stessa, ma allo stesso tempo si pone in relazione con l’altro, sia esso il partner con il quale realizza le performance – con Ulay dal 1975 al 1988, pensiamo alla serie di “Relation in…” -, o piuttosto il pubblico – la folla è fatta di individui singoli, che reagiscono di fronte alle performance in modi assolutamente differenti l’uno dall’altro.

“In culture più primitive le sarebbero stati attribuiti grandi poteri e, forse, bisognerebbe attribuirglieli oggi. In ogni caso, la pratica di nessun’altra arte richiede il sacrificio preteso dalla performance.”*

Alla scoperta della performance art e di Marina Abramovic. Con la visione del docufilm “The artist is present”.
Martedì 13 ottobre dalle 20.45, presso Laboratorio Arka a Vicenza.

QUESTO IL PROGRAMMA COMPLETO DI SCHERMI PIATTI.

*Testi tratti da Dr. Abramovic, a cura di F. Baiardi

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A Carrara per il Summer CAmP di Art Hub

Dall’8 al 12 settembre sarò a Carrara tra i venti partecipanti al Summer CAmP di Art Hub Carrara, corso di progettazione culturale, che si terrà presso il prestigioso CAP – Centro Arti Plastiche e in diversi altri luoghi della città toscana.

Cinque intense giornate nelle quali i quattro tutor, professionisti nell’ambito del contemporaneo, dialogheranno con i venti corsisti – selezionati da Art Hub – attorno a temi fondamentali quali gli strumenti di progettazione di eventi e mostre d’arte contemporanea, lo storytelling per la presentazione di un progetto, strumenti di finanziamento dei progetti e studi di fattibilità, approfondimenti in merito alla proprietà intellettuale.

I progetti sviluppati in occasione del Summer CAmP saranno presentati all’interno della piattaforma di Con_Vivere Carrara Festival e proposti a enti pubblici, privati, e ai partner di Art Hub Carrara.

L’Art Hub di Carrara è il primo e attualmente l’unico incubatore italiano dedicato alle professioni dell’arte contemporanea. Da un lato tenta di creare un’occasione di formazione e orientamento, dall’altro cerca di mettere in rete diverse professioni e soprattutto professionisti, con lo scopo di creare non solo sinergie ma anche reali occasioni di scambio in ambito lavorativo.

Art Hub è un progetto dell’associazione BlitzArt e vede il partenariato del Comune di Carrara e la collaborazione del Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato nell’ambito del progetto regionale Cantiere Toscana Contemporanea. Artribune, mediapartner del progetto, ha già redatto diversi articoli che approfondiscono il tema.

Vi terrò aggiornati giornalmente con post e video (anche in diretta) che potrete seguire da qui e dalla pagina facebook di Olivares Cut.

 

 

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Sporcarsi le mani

Davanti alla bocca spalancata del forno stavano due ragazzi, a scrutare con una certa apprensione il caldo crepitio che accendeva di rosso le guance più di quanto non stesse facendo il vino versato nei loro bicchieri. Sotto allo specchio in ingresso, quello con l’enorme cornice in algida ceramica smaltata, stava accatastato qualche buon quintale di ciocchi di legna grossi come cosce, pronto per essere arso. Dovevano assicurare il carico per le quattordici ore successive. Nonostante i turni pronti da giorni, nessuno sarebbe stato in grado di andarsene prima che la cottura fosse stata ultimata, magnetizzati dal fascino della fornace e dalla sospensione greve che crea l’attesa di un evento…

Arrivando a Nove in auto da Vicenza, contavo sulla punta delle dita da quanti anni non andavo alla Fornace Stringa. Forse dieci, forse di più, che importa. Al tempo frequentavo ancora l’università. Nadir Stringa, il proprietario della fornace, era fratello di uno dei miei professori di corso, il buon Nico, detentore della cattedra di Arte Contemporanea in quel di Ca’ Foscari.
La produzione ceramica, all’interno della fornace, era interrotta già da anni, ma i proprietari avevano avuto la saggezza e la cura di preservare gli spazi e i manufatti dall’incuria e l’abbandono mantenendo, per quanto possibile, inalterata la storia di uno dei più importanti centri di produzione ceramica nazionale, se non addirittura internazionale. La prima volta che andai, ricordo, mi rimase impresso il fatto che stessero cercando, per mezzo mondo, chi potesse sistemare la ruota idraulica, composta da tavole lignee ormai rose risalenti a qualche secolo prima. Un pezzo di storia nella storia.

Ogni anno la cittadina, che poco dista dalla più conosciuta Bassano, apre i portoni delle fabbriche dove ancora si produce ceramica, salvaguardando la tradizione decorativa e la manualità che negli ultimi decenni la produzione industriale è stata in grado di spazzare via per la gran parte. A fianco di chi – gli anziani novesi – non ha mai smesso di esercitare una pratica tramandata di padre in figlio, da qualche centinaio d’anni (uomini che hanno passato una vita chini sui piatti, o donne dalle dita piccole e affusolate in grado di assemblare con minuziosa precisione piccolissimi elementi di terra molle) esiste una piccola frangia di “novesi di ritorno”. Uomini, una manciata, tra i trenta e i quarant’anni, cresciuti tra le mensole di legno sulla quale riposavano le terrecotte uscite dai forni, tra gli odori delle vernici usate per le decalcomanie – le stesse da secoli – e i rigoli d’acqua e terra che colavano dalle griglie di legno, che avevano tutto l’aspetto di scale a pioli messe a riposo, irrorando i pavimenti delle manifatture come campi assetati.
Made in Nove, così si è ribattezzato questo gruppo. Come fosse un marchio di qualità, una garanzia sottopelle, un sangue blu screziato di argilla. Ragazzacci dell’arte che, prima di tornare alle origini per calarle nel contemporaneo, si sono allontanati da queste cercando la loro personale strada.

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La presa ferma

Intro.
Ti ho riconosciuto nell’atrio della fiera, nell’andirivieni di gente ininterrotto che ti circondava. Tu eri al telefono e io ho pronunciato il mio nome senza emettere suono, per non disturbare la conversazione. “Petra”. Letto il labiale, hai chiuso la chiamata e ci siamo presentati come si conviene. Una stretta di mano, due baci sulle guance. Quelle cose che si fanno quando ci si vede per la prima volta, dopo essersi scambiati il giusto numero di messaggi scritti e una telefonata per capire dalla voce di che pasta si è fatti.
Accettando il mio invito venivi a parlare di te al Take Care Corner (“no, di Dolomiti Contemporanee“, mi hai risposto. “Ma io volevo che mi parlassi di te”. “Io Sono Dolomiti Contemporanee.” “Ah, allora va bene”). Ti ho guardato sederti in poltrona e, in un tempo brevissimo (chissà se te ne sei accorto) calamitare attorno a te le persone che gravitavano attorno ai tappeti, alla lampada. Tutti si sono fermati ad ascoltare ciò che ci stavi per dire.
Iniziamo.

Gianluca D’Incà Levis è un fuggitivo. Un architetto fuggito dalla morsa del tecnigrafo.
Nel 2008, mentre l’Unesco stava valutando la possibilità di far rientrare nel patrimonio dell’umanità il complesso naturale dei “Monti Pallidi”, Gianluca usciva dal suo studio di architettura per entrare nel tunnel dell’arrampicata.
Io non ho idea di che significhi “arrampicare”; mi dicono sia un’esperienza totalizzante, mistica, di quelle di cui, una volta provata, non si riesca più a farne a meno. Uno spaccio di endorfina.
In un volo pindarico, guardando dal basso i corpi appesi alla roccia, cerco un’analogia tra questa pratica a me così lontana e il tango che conosco. Vedo in loro, come nella danza, una tensione del corpo che è dettata dalla mente, la quale riferisce ai muscoli che fare attraverso parole silenziose; l’incedere sicuro, un passo alla volta, è scandito da un ritmo fatto dai suoni del respiro. Le spalle rilassate, i polsi morbidi, i nervi tesi, la presa ferma: si seduce la roccia per conoscerla. La corda doppia fa una ronda verticale. Le cortine lassù, anziché esser musicali, sono di nebbia.
Accosto l’immagine della presa nel tango (le mani unite dei due ballerini nell’abbraccio)  a quella nell’arrampicata, quando le falangi stringono la roccia sfidando le leggi di gravità. E trovo in Walter Benjamin la riprova che le coincidenze esistono (se le si vogliono trovare): “La presa ferma, apparentemente brutale, fa parte dell’immagine della salvezza.”

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La percezione del peso di un corpo

Alcune notti fa ho fatto un sogno vivido: ho sentito, con l’esattezza della realtà, il peso di un corpo che si sdraiava sopra al mio, ne ho percepito la pressione sulla cassa toracica, il contatto della pelle, il piacere della vicinanza. Tutt’altro che restia a provare un’esperienza simile, ho ceduto, in sogno, all’abbraccio di cui ero protagonista. Al risveglio ero talmente certa che l’esperienza non fosse stata solamente onirica – relegata alla brevissima parentesi della fase REM – da provare un certo disappunto non trovando al mio fianco quel corpo sognato. In che modo la psiche condiziona (in sogno così come nella vita reale) il nostro corpo e la percezione che abbiamo di esso? Poche sono le volte in cui ci si lascia andare “come un corpo morto cade”…

Una volta terminata la visita alla mostra intitolata Espansioni/Contrazioni (mostra che trae spunto dai concetti sviluppati dallo psicoterapeuta Alexander Lowen “fondatore dell’analisi bioenergetica, pratica volta alla cura dei blocchi psichici attraverso un approccio diretto alla risoluzione degli scompensi fisici”) non ho potuto fare a meno di collegare il mio “sogno esperienziale” con quello che era stato il mio microviaggio tra le opere esposte, e la forte relazione tra queste e le riflessioni sulla percezione del corpo.

ESPANSIONI/CONTRAZIONI è una mostra non semplice, realizzata in più momenti. In una prima fase i curatori, Andrea Penzo e Cristina Fiore, hanno invitato gli artisti a partecipare ad un incontro

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