Il mio punto di riferimento su New York è stato, ancor prima della mia partenza, Elisa Bertaglia. L’artista, italiana, e carissima amica, è nella City dal primo aprile scorso, e New York sta diventando un po’ la sua seconda casa. Pertanto ho voluto coinvolgere anche lei nella mia rubrica NEW YORK ROOTS, ed ascoltare il suo punto di vista, rispetto al suo rapporto con questa città, soprattutto per quanto concerne la sua ricerca artistica.
Questo, a tutti gli effetti, è il primo pezzo della rubrica NEW YORK ROOTS, una serie di interviste miste a racconti d’arte, che ho deciso di pubblicare mentre starò nella City, per lasciare traccia degli artisti che, man mano, incontrerò durante il mio soggiorno americano.
Alessandro Del Pero è stato il primo artista che sono andata a conoscere, qui a New York.
Alcuni giorni dopo il mio arrivo nella City ho ricevuto una mail da Anna Quinz, un’amica, bolzanina doc dalla vocazione internazionale, che ha fatto del suo matrimonio la piattaforma di lancio per la propria impresa innovativa e professionale, coniugando l’industria del matrimonio e l’arte contemporanea (per scoprirne di più guardate The Wedding Enterprise) e che io ho conosciuto qualche anno fa durante un summer camp dalle temperature invernali dalle parti di Dolomiti Contemporanee . Nella mail Anna mi suggeriva caldamente di andare a conoscere un suo caro amico e conterraneo, un artista che da alcuni anni si era trasferito nella Grande Mela.
Detto fatto, scrivo ad Alessandro e pochi giorni dopo fissiamo un incontro per uno studio visit.
La cosa splendida di vivere (anche se per soli due mesi) nell’Upper West Side è che non solo sei a un tiro di schioppo da qualsiasi meta di Manhattan (la metro è di un’efficienza svizzera, quando funziona…) ma che puoi raggiungere a piedi Central Park, attraversarlo, e arrivare nell’East side costeggiando il muricciolo che delimita il lato corto a nord del parco, con un caffè in mano (fa molto newyorkese, lo sapete o devo farvelo vedere in una dozzina di film?) e finendo in men che non si dica dalle parti di Harlem.
E’ incredibile questa città, una via in più e in un istante ti trovi in un paese nuovo. La comunità afroamericana è per la gran parte concentrata dalla 110a strada in su, proprio dal margine superiore del parco, e poco sopra, dove Alessandro Del Pero ha il suo studio, già ci si può imbattere in inaspettate manifestazioni aggregative. (Tanto per farvi capire, alcuni giorni fa sono stata a fare due passi sulla 125a strada, per raggiungere The Studio Museum – che ahimè ho trovato chiuso per allestimento – e giuro mi sono sentita…strana! Mi sono chiesta da dove provenisse quella mia sensazione, e mi sono resa conto che, a ben vedere, ero l’unica donna bianca nel raggio di qualche centinaio di metri parecchio affollati di gente. Non per questo ho esitato a mettere dentro il naso in un paio di negozi di parrucche afro, e ho resistito all’impulso di comprare come souvenir una t-shirt stampata nel banchetto più trendy di Harlem – ehm – trovandomi a scegliere tra Malcom X, Muhammad Ali e altre icone nere, non so se più “local” o più “global”…)
Tornando a noi, suono al citofono, facendomi strada tra alcuni chiassosi ma bonari perdigiorno di fronte all’ingresso, e salgo un paio di rampe di scale del palazzo in cui Alessandro ha lo studio, trovandolo ad accogliermi sul pianerottolo. Giunti all’interno della grande stanza quasi completamente coperta alle pareti dai lavori sui quali sta lavorando, non possiamo non affacciarci discretamente alla finestra che dà sul cortile interno: un gruppetto sparuto di gente alle 11.30 di mattina sta cantando (da ore) una specie di litania, tenendo il ritmo con percussioni più o meno improvvisate, e muovendosi a tempo in una danza che ha tutto l’aspetto di qualcosa di rituale ma stanco, un tribale da condominio, che vista l’ora e il luogo assume – ai miei occhi – l’aspetto di qualcosa di ironicamente fuori posto, per quanto si percepisca la serietà con la quale gli astanti stanno compiendo questi gesti.
In effetti qui, e per qui intendo proprio il condominio, la musica è (o meglio era) di casa: fino a qualche mese prima lo stabile ospitava nientemeno che il National Jazz Museum in Harlem, ora spostatosi sulla 129a strada, ma il ritmo sembra oramai aver imbevuto le pareti.
Alessandro siede di fronte a me, e mi racconta dei suoi lavori. Di come la passione per l’arte sia stata, ad un certo punto della sua vita, talmente forte da prendere il sopravvento su tutto, e di come New York sia stata una sorta di calamita. Un luogo aspro, per certi versi, non semplice ma che, proprio per la tensione continua alla quale ti costringe costantemente la Grande Mela, ti sprona ad avanzare nella ricerca, a migliorare, a superarti.
Le opere alle pareti sono grandi tele, molte delle quali ancora in lavorazione. Acrilici dai toni cupi, ma vibranti, soggetti in parte figurativi, ma che esprimono, proprio nell’asprezza della pennellata, e nell’uso calibrato della luce (le ombre prevalgono, sulla scena) un significato altro, recondito, svelato in parte dai titoli: le Pietà e le Deposizioni ritraggono tronchi d’albero spezzati, o affranti, ripiegati su loro stessi, nell’hortus conclusus di cortili angusti che, più che aprirsi verso l’esterno, tendono a chiudere la visione, drammaticamente.
Un lavoro di questa serie l’ho visto, una decina di giorni dopo, esposto tra le opere in mostra all’Istituto Italiano di Cultura a New York, a Midtown, nel palazzo lungo Park Avenue adiacente al Consolato Italiano. La grande Pietà occupava quasi per intero la parete del pianoterra dell’edificio, e la luce che giungeva dalle vetrate della scalinata monumentale ne esaltava la potenza evocativa.
Una seconda serie di lavori, Wired, mi ha colpito: le ambientazioni in interni dei dipinti (stanze sgombre di tutto, forse in anonimi appartamenti newyorkesi) erano “abitate” da presenze ambiguamente figurative: un dedalo di cavi che diventavano non solo gli abitanti delle stanze vuote, ma i protagonisti stessi delle opere, innescando dialoghi con l’altra protagonista, la luce, che entra da finestre non presenti sulla scena, creando figure geometriche irregolari sulla pavimentazioni d’assi di legno consunto.
Sei tele di questa serie sono state da poco esposte alla Cara Gallery, galleria di recente apertura, anch’essa nella splendida Chelsea, di proprietà di due italiani emigrati nella City da Milano.
Last but not least, direi che i ritratti meritano altrettanta attenzione. E’ vero, non posso fare a meno di ricordare Francis Bacon, guardandoli. Nei dipinti di Alessandro, pur essendo attenuata l’inquietudine dei volti, c’è un tentativo di voltare l’interno verso l’esterno, in quelle carni che sembrano private della pelle. Ma è non tanto quella epidermica a mancare, quanto la patina emotiva che talvolta si tenta di indossare, a mo’ di maschera, per nascondere allo sguardo altrui la propria più recondita identità.
Come ti chiami, qual è la tua età?
Mi chiamo Alessandro Del Pero ho 37 anni.
Come siamo entrati in contatto?
Una amica in comune ci ha messi in contatto
Di cosa ti occupi? / A quale progetto stai lavorando in questo momento?
Io faccio il pittore / nessun progetto, continuo a lavorare.
Da quanto tempo sei a New York?
Sono a NY da circa 4 anni
Cosa ti sta dando la Grande Mela?
La grande mela mi sta spingendo a lavorare costantemente.
Dove credi siano, le tue radici?
Le mie radici sono in Italia, ma una di loro viene proprio da qui.
Dove ti si può trovare?
Mi si può trovare ad Harlem. Nel mio studio.
MEMORABILIA-LE
MEMORA-BILI-ALE
MEMORA-BILIALE
MEMORABILI-ALE
MEMORABILIALE
Ho bisogno di una memoria storica. Mentre pensavo a come raccontare del mio “adieu” a XXXXXXXX, mi è tornata alla mente quella famosa cantilena di Marina Abramovic, in cui lei, chiusa la relazione con Ulay, il suo inseparabile compagno, nella vita e nell’arte – ambiti che così spesso coincidevano, o si fondevano indissolubilmente – recitava come un mantra, all’interno di non ricordo più quale performance. Bye-bye, Extremes. Bye-bye, Purity. Bye-bye, Togetherness. Bye-bye, Intensity. Bye-bye, Jealously. Bye-bye, Structure. Bye-bye, Tibetans. Bye-bye, Danger. Bye-bye, Unhappiness. Bye-bye, Solitude. Bye-bye, Tears. Bye-bye, Ulay. […]
Monica è seduta ai piedi della gradinata del piccolo teatro. É lí fin dall’ingresso del primo spettatore in sala. Da dove sono seduta vedo le sue spalle sottili, la pelle bianca, le spalline del reggiseno, bianco anch’esso, e la canotta fucsia, coperta in parte dai capelli argentei, raccolti in una piccola coda. Non si muove di lì finchè le luci in sala non si spengono, lasciando il posto ai proiettori accesi sopra il piccolo palcoscenico. […]
Alcune notti fa ho fatto un sogno vivido: ho sentito, con l’esattezza della realtà, il peso di un corpo che si sdraiava sopra al mio, ne ho percepito la pressione sulla cassa toracica, il contatto della pelle, il piacere della vicinanza. Tutt’altro che restia a provare un’esperienza simile, ho ceduto, in sogno, all’abbraccio di cui ero protagonista. Al risveglio ero talmente certa che l’esperienza non fosse stata solamente onirica – relegata alla brevissima parentesi della fase REM – da provare un certo disappunto non trovando al mio fianco quel corpo sognato. In che modo la psiche condiziona (in sogno così come nella vita reale) il nostro corpo e la percezione che abbiamo di esso? Poche sono le volte in cui ci si lascia andare “come un corpo morto cade”. […]
Incontrai quel tale in treno. Stavo viaggiando alla volta di Treviso e mi imbattei in un uomo anziano, un’ottantina d’anni, all’incirca. Aveva una barbetta lunga e appuntita, da capro, e gli occhi vispi, che contrastavano con la pelle rugosa che li contornava. Con quelli scrutava l’intero scompartimento, saltando da un passeggero all’altro come cavallette affamate. Quando si fermò sui miei occhi cominciò a raccontare, senza un preambolo. E prese a narrarmi della Casa di Follina. […]
Facciamo che parliamo un po’ della concatenazione degli eventi. E’ tutta la vita che trascorre così, no? Solo che a volte non ce ne rendiamo conto, non facciamo molto caso a quanto certe faccende siano legate tra loro. Ad essere onesta non ho ben capito se in maniera del tutto casuale, o se invece sono io – a posteriori – a unire nella mia mappa mentale tutti quei puntini che corrispondono ai singoli eventi e trovarvi infine un disegno leggibile che assomiglia vagamente alla mia vita. […]
Il mio vero cognome è Cason. Olivares l’ho avuto in eredità “dal mio ex marito, narcotrafficante colombiano che, andandosene, mi ha lasciato il nome, una cicatrice e un figlio”. Scherzo.
Ma quel -on finale, è vero. E rivela le mie origini. I miei nonni paterni si trasferirono nel vicentino negli anni Quaranta del secolo scorso emigrando dal Bellunese, dalla vallata di Forno di Zoldo, per la precisione, che è a un tiro di schioppo da Longarone, la città che vive all’ombra della diga del Vajont. Ho passato un anno sottotraccia. […]
Da quando il “mentore” mi ha chiesto qual era il mio curatore preferito sono caduta dallo sgabello in cui ero seduta, ho smesso di fare “robette”, e ho cominciato a studiare. Non ho più smesso.
Nemmeno una mostra ho curato da sola, quest’anno. Ma ho accumulato valanghe di pagine lette e sottolineate, decine di treni presi, innumerevoli mostre viste, battuto a tappeto qualche buona fiera (qui e oltremanica). Ho centinaia tra fotografie scattate, post condivisi, articoli sul sito portati a compimento; centinaia di ore di confronti con artisti, curatori, galleristi, amici vecchi e nuovi. Ho intessuto reti sempre più ampie, guardato il mondo dell’arte contemporanea da una prospettiva diversa, nuova, meno edulcorata.
Mi son fatta venire qualche buona crisi, ma poi l’ho superata, smettendo di concentrarmi sugli obiettivi (professionali), ma cercando di mantenermi fedele al metodo che mi sto costruendo. Il tiro va assestato continuamente. […]
“Per attraversare la Colonia hai bisogno di una mappa”. Elisa prende dalla borsa un foglio piegato in quattro e lo apre davanti ai nostri occhi. Credo che neppure con quello sarei in grado di destreggiarmi tra il dedalo di corridoi vuoti che mi si para davanti. Ma a tentare l’esplorazione non sono io, ma il compagno di Maria, con la piccola Clara vestita da orsetto infilata nel marsupio e per niente infastidita dal freddo che investe anche la Colonia. Padre e figlia si incamminano lungo la rampa, mentre io ed Elisa riprendiamo la nostra chiacchierata. […]
L’amore di una vita se ne va di casa e io compro due pesci rossi. Dora e Pablo. C’è da stupirsi di come due esserini guizzanti, dentro una bolla di vetro piena d’acqua quasi sempre sporca, siano in grado di tenere compagnia. E di non fare domande indiscrete. […]
Intro. Ti ho riconosciuto nell’atrio della fiera, nell’andirivieni di gente ininterrotto che ti circondava. Tu eri al telefono e io ho pronunciato il mio nome senza emettere suono, per non disturbare la conversazione. “Petra”. Letto il labiale, hai chiuso la chiamata e ci siamo presentati come si conviene. Una stretta di mano, due baci sulle guance. Quelle cose che si fanno quando ci si vede per la prima volta, dopo essersi scambiati il giusto numero di messaggi scritti e una telefonata per capire dalla voce di che pasta si è fatti. […]
Il 9 luglio di un anno fa cadeva di lunedì. E nella calura estiva, mentre io percorrevo la A4 per raggiungere Forte Marghera, il mio compagno di una vita svuotava casa nostra dalle sue cose. […]
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“Petra Cason tiene un blog in cui scrive d’arte in modo piuttosto narrativo e molto personale, un po’ diario e un po’ critica. Mi racconta che l’ha aperto in un momento in cui nella sua vita si è verificato un taglio (Cut, in inglese che poi è l’acronimo che significa tutt’altro di parte del titolo del blog). Per la Collezione mi porpone un cut-up (alla Borroughs!) del primo paragrafo di alcuni articoli del blog, quelli a cui è più legata. Quetsa raccolta di frammenti, di schegge d’arte, si mescola ad una raccolta di memorabilia domestica, tracce di memoria intima (cioè oggetti che sono come aneddoti di vita – e l’aneddoto, spiega Walter Benjamin, è simile alla collezione). E il blog di Petra, in fondo, è così: raccontare l’arte parlando della vita, e viceversa.” (Daniele Monarca, dal catalogo)
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COLLEZIONE EFFIMERA. Un progetto di Daniele Monarca
MEMORABILIALE, “cut” di Petra Cason Olivares (photo courtesy Andrea Garzotto)
– Domenica 17 aprile 2016 –
Giovedì 31 marzo inaugura ad Arzignano, negli spazi di Atipografia, ERRANZA. Del radicante e di altri segni, doppia personale – a mia cura – delle artiste Elisa Bertaglia e Enrica Casentini. Qui di seguito alcune mie considerazioni che raccontano da dove è nata questa mostra, e già alcune anticipazioni sulle opere che si stanno preparando.
GENESI DI UNA MOSTRA
L’artista contemporaneo è un essere in viaggio. Elabora un pensiero nomade, e il suo avanzamento è fatto di nuovi segni che diventano, con l’incedere, parte di un bagaglio (culturale, iconografico, verbale, concettuale) sempre più esteso.
Punto di partenza della riflessione che ha portato a questa mostra è stato un saggio sull’arte contemporanea scritto dal critico d’arte francese Nicolas Bourriaud (uscito nel 2009 in Francia e nel 2014 nella traduzione italiana) intitolato “Il radicante. Per un’estetica della globalizzazione”, testo che è stato letto e discusso da tutte noi nel corso di questi mesi, e che ci è servito da traccia, per un’idea di esposizione, lungo la quale aprire un dialogo tra noi tre e, per ogni singola artista, attuando una riflessione nei confronti del proprio lavoro.
Nella mia pratica curatoriale ho posto una di fronte all’altra due artiste (Elisa Bertaglia ed Enrica Casentini) che non si conoscevano, e che non conoscevano nemmeno il pregresso artistico l’una dell’altra, ma delle quali avevo intravisto un’affinità elettiva. E ho posto loro una sfida: quella di confrontarsi (ancor prima di farlo tra loro, realizzando una mostra assieme, lavorando a quattro mani su un progetto condiviso) con la figura del Radicante e con le teorie sul contemporaneo elaborate dal critico francese.
Chi è, e dove sta andando l’artista contemporaneo? Qual è la direzione che sta prendendo la ricerca artistica, e che tipo di relazione sta instaurando con la contemporaneità? Questi fondamentalmente sono i nodi attorno ai quali gravitano le considerazioni di Bourriaud, questioni che abbiamo tentato di fare nostre.
Bourriaud parla della sua visione dell’artista contemporaneo quale figlio del suo tempo, in un ormai avviato XXI secolo, individuo che si trova – nell’altermodernità – ad abbandonare, volente o nolente, i pre-concetti che furono fondanti per il secolo appena trascorso.
L’autore, dopo aver fatto un quadro completo che parte dalla modernità, giunge ai giorni nostri interrogandosi su chi siano le figure dominanti della cultura contemporanea, e riscontra nella figura dell’errante (sia esso l’immigrato, l’esiliato o il turista) l’individuo figlio del proprio tempo. E utilizza un linguaggio proveniente dal mondo vegetale, per descriverne le caratteristiche che lo rappresentano: gli esseri che abitano questo XXI secolo ricordano i radicanti “quelle piante che per crescere non si affidano a un’unica radice, ma avanzano in tutti i sensi sulle superfici che si offrono loro, aggrappandovisi”. Come l’edera, come la fragola, come la gramigna. Il radicante fa crescere – in base alle necessità – una ramificazione secondaria che affianca la radice principale, e si sviluppa e trae nutrimento a seconda del terreno che lo accoglie, instaurando un nuovo rapporto con lo spazio con cui il radicante entra in contatto.
Ma come è giunto Bourriaud alla figura del “radicante”? Faccio un passo indietro.
Il modernismo era ossessionato dal concetto di radicalità, ossia dalla volontà inarrestabile di ritornare alle origini (le radici) e per fare questo insistette nel fare tabula rasa dello stato delle cose, spianando letteralmente il terreno sul quale ricostruire da zero un linguaggio privo delle scorie che la Storia aveva lasciato in eredità. Le Avanguardie storiche, aderendo totalmente a questo concetto, lavorarono per sottrazione, epurando l’arte degli influssi del passato, e decretando il “nuovo” a “criterio estetico” in sé. Qui la radice “rappresenta al contempo un’origine mitica e una destinazione ideale”. L’andamento della pianta che lo rappresentava (l’albero) era biunivoco e unidirezionale: le radici ben ancorate a terra, inamovibili, e il fusto svettante verso l’alto, seguendo uno sviluppo lineare, l’unico consentito.
Il postmodernismo invece non fece altro che applicare un lavoro contro la radicalità. Tutto ciò che era ben affondato ad un terreno stabile e duraturo, quasi dogmatico, venne non solo abbandonato ma rifiutato, a partire dall’Internazionale Situazionista alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, per il quale lo stato di fluidità e fluttuazione non era un processo ma il fine. Il territorio della modernità diventa uno stato di deterritorializzazione, e in questa fluttuazione la cultura appare liquida, che si compone – o decompone – di tutti i segni che facevano parte di stili ed epoche precedenti, che ora appaiono non solo decontestualizzati, ma riassemblati a piacere, per dare luogo a nuove prospettive, che rifiutano le forme a favore di un eclettismo generalizzato.
Al simbolismo della modernità, il postmodernismo ribatte con una frammentazione che fa dei segni semplici “referenti culturali”, ormai sganciati dal reale.
In un’epoca che vede entrare nella scena economica quelle che diverranno in questo secolo le nuove grandi potenze, i paesi in via di sviluppo, il progresso appare il deus ex machina sotto cui vive il modernismo. E in questa nuova posizione la “radice” del XX secolo riappare sotto la forma nuova e totalizzante della globalizzazione, che però, dal canto suo, tende ad estirpare le vecchie identità storiche puntando all’uniformità, all’appiattimento, alla nuova spinta nazionalistica.
Ecco che si giunge allo stato attuale delle cose, all’altermodernità, epoca che vede il soggetto individuale (o collettivo) assumere una nuova connotazione identitaria: egli ora è privo di ancoraggi, o ormeggi, e il movimento fa parte del suo stesso “essere” (nel senso di esistere in maniera attiva, non passiva).
Bourriaud associa a questo individuo (l’immigrato, l’esiliato, ma anche il turista e l’errante urbano) l’immagine emblematica del “radicante”, metafora della figura dominante della cultura contemporanea.
L’individuo errabondo assume le fattezze e le caratteristiche intrinseche di vegetali come l’edera, “i quali fanno crescere le radici a seconda della loro avanzata”, e trae nutrimento e appoggio dal suolo che, a seconda del suo incedere, è pronto ad accoglierlo. Pertanto è l’individuo stesso ad adattarsi allo spazio entro (o sopra) al quale esso si muove.
L’artista contemporaneo è esso stesso, in quanto figlio della propria epoca, un individuo errante, che vive nel costante dualismo tra due forze uguali ed opposte, che lo portano da un lato a sentire come necessario il legame con l’ambiente dal quale proviene, e dall’altro a voler lasciare che lo sradicamento prevalga sulle due. A metà tra l’identità (rivolgendosi a se stesso) e l’apprendimento dell’Altro. Il soggetto diventa esso stesso un “oggetto di negoziazioni”.
Questa mostra diventa, per Elisa ed Enrica, il terreno su cui si incontrano due poetiche stilisticamente differenti, ma convergenti in un tema comune. Una doppia personale “site specific” e “time specific” che concede alle due artiste di confrontarsi autonomamente, dando ampio respiro alle ricerche personali, ma da un lato le piega l’una verso l’altra, non in un semplice accostamento di opere, quanto piuttosto alla ricerca di un approccio condiviso a proposito del tema che è stato argomento di scambio degli ultimi mesi. All’interno della riflessione le due artiste hanno riversato la propria esperienza soggettiva, che è stata fondante all’ideazione dei lavori “dedicati”. Entrambe “nomadi” per vocazione, si sono ritrovate negli ultimi anni a confrontarsi con identità e culture “altre” (Enrica avendo vissuto diversi anni a Londra, Elisa facendo avanti e indietro da New York), e in questi passaggi hanno portato con sé nuove consapevolezze, grandi interrogativi e conseguentemente tentativi di risposta.
L’individuo/artista contemporaneo è in costante re-radicamento. Può tagliare la radice principale senza subire danni: l’abbandono del luogo d’origine non è mai un tradimento del punto di partenza, ma in una ipotetica scala gerarchica nella formazione di un individuo questo aspetto non è necessariamente il più importante. L’artista radicante si mette in viaggio senza avere la preoccupazione di un luogo in cui tornare. Porta con sé, e diventano parte della sua identità, i frammenti raccolti lungo questo viaggio (geografico o ideale che sia), “a condizione di trapiantarli su altri suoli e di accettare la loro permanente metamorfosi”.
In questo avanzamento costante e ininterrotto “i contatti con il suolo si riducono” e quello che prende piede è un “pensiero nomade”, e in questo continuo movimento l’artista si ritrova a farsi strada tra una distesa di segni, che elabora facendoli propri.
Nel proprio incedere il semionauta, l’essere radicante, pone nuove ramificazioni e fa nascere nuove isole di conoscenza: osservandolo con sguardo distaccato ha l’aspetto di una rete, con sottili linee di congiunzione tra punti sparsi, senza un ordine apparente. L’opera “Bindwood” (termine arcaico dell’edera – ivy – e che ne definisce il suo “aggrapparsi, essere avvinta” al legno) di Elisa Bertaglia assume le fattezze di una costellazione vegetale. Punti luminosi che fanno emergere, attraverso le trame fitte delle foglie incise, una costellazione nella costellazione. Le piccole bambine – elemento caratterizzante della poetica di Elisa – emergono attraverso piccolissimi fori che bucano le superfici carnose delle foglie intrappolate in un contenitore di luce. La visione dal basso (all’interno dello spazio buio e raccolto che accoglie l’installazione) consente di percepire tanto le venature della vitalità linfatica dei supporti vegetali, quanto i corpicini luminosi delle piccole protagoniste, sospese in un tempo in divenire che le proietta in una mappa segnica attraverso la quale ritrovare la direzione del proprio cammino.
Riferimenti delle artiste
ELISA BERTAGLIA www.elisabertaglia.com
ENRICA CASENTINI www.enricacasentini.com
IMMAGINE IN EVIDENZA | CARTOLINA: intervento delle artiste – Asilo Bonazzi, Arzignano.
Petra Cason Olivares, art curator