NEW YORK ROOTS #1 – ALESSANDRO DEL PERO

Questo, a tutti gli effetti, è il primo pezzo della rubrica NEW YORK ROOTS, una serie di interviste miste a racconti d’arte, che ho deciso di pubblicare mentre starò nella City, per lasciare traccia degli artisti che, man mano, incontrerò durante il mio soggiorno americano.

Alessandro Del Pero
è stato il primo artista che sono andata a conoscere, qui a New York.
Alcuni giorni dopo il mio arrivo nella City ho ricevuto una mail da Anna Quinz, un’amica, bolzanina doc dalla vocazione internazionale, che ha fatto del suo matrimonio la piattaforma di lancio per la propria impresa innovativa e professionale, coniugando l’industria del matrimonio e l’arte contemporanea (per scoprirne di più guardate The Wedding Enterprise) e che io ho conosciuto qualche anno fa durante un summer camp dalle temperature invernali dalle parti di Dolomiti Contemporanee . Nella mail Anna mi suggeriva caldamente di andare a conoscere un suo caro amico e conterraneo, un artista che da alcuni anni si era trasferito nella Grande Mela.
Detto fatto, scrivo ad Alessandro e pochi giorni dopo fissiamo un incontro per uno studio visit.
La cosa splendida di vivere (anche se per soli due mesi) nell’Upper West Side è che non solo sei a un tiro di schioppo da qualsiasi meta di Manhattan (la metro è di un’efficienza svizzera, quando funziona…) ma che puoi raggiungere a piedi Central Park, attraversarlo, e arrivare nell’East side costeggiando il muricciolo che delimita il lato corto a nord del parco, con un caffè in mano (fa molto newyorkese, lo sapete o devo farvelo vedere in una dozzina di film?) e finendo in men che non si dica dalle parti di Harlem.
E’ incredibile questa città, una via in più e in un istante ti trovi in un paese nuovo. La comunità afroamericana è per la gran parte concentrata dalla 110a strada in su, proprio dal margine superiore del parco, e poco sopra, dove Alessandro Del Pero ha il suo studio, già ci si può imbattere in inaspettate manifestazioni aggregative. (Tanto per farvi capire, alcuni giorni fa sono stata a fare due passi sulla 125a strada, per raggiungere The Studio Museum – che ahimè ho trovato chiuso per allestimento – e giuro mi sono sentita…strana! Mi sono chiesta da dove provenisse quella mia sensazione, e mi sono resa conto che, a ben vedere, ero l’unica donna bianca nel raggio di qualche centinaio di metri parecchio affollati di gente. Non per questo ho esitato a mettere dentro il naso in un paio di negozi di parrucche afro, e ho resistito all’impulso di comprare come souvenir una t-shirt stampata nel banchetto più trendy di Harlem – ehm – trovandomi a scegliere tra Malcom X, Muhammad Ali e altre icone nere, non so se più “local” o più “global”…)
Tornando a noi, suono al citofono, facendomi strada tra alcuni chiassosi ma bonari perdigiorno di fronte all’ingresso, e salgo un paio di rampe di scale del palazzo in cui Alessandro ha lo studio, trovandolo ad accogliermi sul pianerottolo. Giunti all’interno della grande stanza quasi completamente coperta alle pareti dai lavori sui quali sta lavorando, non possiamo non affacciarci discretamente alla finestra che dà sul cortile interno: un gruppetto sparuto di gente alle 11.30 di mattina sta cantando (da ore) una specie di litania, tenendo il ritmo con percussioni più o meno improvvisate, e muovendosi a tempo in una danza che ha tutto l’aspetto di qualcosa di rituale ma stanco, un tribale da condominio, che vista l’ora e il luogo assume – ai miei occhi – l’aspetto di qualcosa di ironicamente fuori posto, per quanto si percepisca la serietà con la quale gli astanti stanno compiendo questi gesti.
In effetti qui, e per qui intendo proprio il condominio, la musica è (o meglio era) di casa: fino a qualche mese prima lo stabile ospitava nientemeno che il National Jazz Museum in Harlem, ora spostatosi sulla 129a strada, ma il ritmo sembra oramai aver imbevuto  le pareti.

Alessandro siede di fronte a me, e mi racconta dei suoi lavori. Di come la passione per l’arte sia stata, ad un certo punto della sua vita, talmente forte da prendere il sopravvento su tutto, e di come New York sia stata una sorta di calamita. Un luogo aspro, per certi versi, non semplice ma che, proprio per la tensione continua alla quale ti costringe costantemente la Grande Mela, ti sprona ad avanzare nella ricerca, a migliorare, a superarti.
Le opere alle pareti sono grandi tele, molte delle quali ancora in lavorazione. Acrilici dai toni cupi, ma vibranti, soggetti in parte figurativi, ma che esprimono, proprio nell’asprezza della pennellata, e nell’uso calibrato della luce (le ombre prevalgono, sulla scena) un significato altro, recondito, svelato in parte dai titoli: le Pietà e le Deposizioni ritraggono tronchi d’albero spezzati, o affranti, ripiegati su loro stessi, nell’hortus conclusus di cortili angusti che, più che aprirsi verso l’esterno, tendono a chiudere la visione, drammaticamente.
Un lavoro di questa serie l’ho visto, una decina di giorni dopo, esposto tra le opere in mostra all’Istituto Italiano di Cultura a New York, a Midtown, nel palazzo lungo Park Avenue adiacente al Consolato Italiano. La grande Pietà occupava quasi per intero la parete del pianoterra dell’edificio, e la luce che giungeva dalle vetrate della scalinata monumentale ne esaltava la potenza evocativa.
Una seconda serie di lavori, Wired, mi ha colpito: le ambientazioni in interni dei dipinti (stanze sgombre di tutto, forse in anonimi appartamenti newyorkesi) erano “abitate” da presenze ambiguamente figurative: un dedalo di cavi che diventavano non solo gli abitanti delle stanze vuote, ma i protagonisti stessi delle opere, innescando dialoghi con l’altra protagonista, la luce, che entra da finestre non presenti sulla scena, creando figure geometriche irregolari sulla pavimentazioni d’assi di legno consunto.
Sei tele di questa serie sono state da poco esposte alla Cara Gallery, galleria di recente apertura, anch’essa nella splendida Chelsea, di proprietà di due italiani emigrati nella City da Milano.
Last but not least, direi che i ritratti meritano altrettanta attenzione. E’ vero, non posso fare a meno di ricordare Francis Bacon, guardandoli. Nei dipinti di Alessandro, pur essendo attenuata l’inquietudine dei volti, c’è un tentativo di voltare l’interno verso l’esterno, in quelle carni che sembrano private della pelle. Ma è non tanto quella epidermica a mancare, quanto la patina emotiva che talvolta si tenta di indossare, a mo’ di maschera, per nascondere allo sguardo altrui la propria più recondita identità.

Come ti chiami, qual è la tua età?
Mi chiamo Alessandro Del Pero ho 37 anni.

Come siamo entrati in contatto?
Una amica in comune ci ha messi in contatto

Di cosa ti occupi? / A quale progetto stai lavorando in questo momento?
Io faccio il pittore / nessun progetto, continuo a lavorare.

9 the sculptor 2013 acrylic on canvas 225x197 cm

The sculptor, 2013. Acrylic on canvas

Da quanto tempo sei a New York?
Sono a NY da circa 4 anni

2 Wired XVI 2014 acrylic on canvas 74x88 in188x224 cm

Wired XVI, 2014. Acrylic on canvas

Cosa ti sta dando la Grande Mela?
La grande mela mi sta spingendo a lavorare costantemente.

Pietà, esposta all'Istituto Italiano di Cultura

Pietà, esposta all’Istituto Italiano di Cultura

Dove credi siano, le tue radici?
Le mie radici sono in Italia, ma una di loro viene proprio da qui.

23 selfportrait 2014, 2014 acrylic on canvas 45x35 cm

Selfportrait, 2014. Acrylic on canvas

Dove ti si può trovare? 
Mi si può trovare ad Harlem. Nel mio studio.

Photoshoot Ale -30

Alessandro Del Pero

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NEW YORK ROOTS

Se sono a New York è anche per merito del “Radicante”, il saggio di Nicolas Bourriaud, e della visione che il critico francese ha dell’artista o, più diffusamente, dell’Uomo contemporaneo: un individuo che per crescere ed evolvere ha bisogno di “essere radicante”, gettando nuove radici in nuovi luoghi, e traendo da essi nuova linfa per il proprio sviluppo.
Una piccola, piccolissima intervista per ogni artista che, incontrato a New York abbia voluto rispondere alle mie poche domande, tracciando un nuovo legame nella fitta rete di radici che ognuno di noi, viaggiando, genera.

A presto, con NEW YORK ROOTS

If I am in New York is also thanks to “The Radicant”, a Nicolas Bourriaud’s essay, and the vision that the French critic has about contemporary Artist or, more broadly, contemporary Being: a person in needs of throwing new roots in new places to grow and evolve.
A short interview for each artist who met in New York and wouldn’t mind answering few questions, drawing a new bond in the dense network of roots, that each of us generates travelling.

See you soon, with NEW YORK ROOTS

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BINDWOOD. La costellazione vegetale di Elisa Bertaglia

Il termine arcaico inglese di edera (ivy) è bindwood. E’ una parola composta, che esprime bene ciò che l’edera fa, e per questo è, si chiama. Sta aggrappata al legno, legata, avvinghiata letteralmente al supporto, con il quale, col tempo, diventa una sola cosa, fondendosi quasi in un’entità unitaria. Il legno le serve per arrampicarsi, diventa necessario al suo sviluppo, e per fare questo l’edera getta avanti nuove piccole radici, meno solenni di quelle conficcate nel terreno dal quale la pianta ha preso vita, ma altrettanto necessarie al suo sostentamento.

Bindwood ha trovato dimora, lungo il percorso espositivo di ERRANZA. Del Radicante e di altri segni, in uno spazio raccolto, e quasi totalmente al buio, per permettere la visione intima della “costellazione vegetale” realizzata dall’artista Elisa Bertaglia. I piccoli punti luminosi che, guardando a testa in sù, leggiamo in tutta la loro preziosa definizione, racchiudono porzioni di foglie, sulla carnosità ramificata delle quali sono incise le silhouette di bambine, rannicchiate, fluttuanti, dormienti… Quella che, a tutti gli effetti può ricordare una costellazione celeste – richiamandola nelle fattezze, seppur miniaturizzate – trova in realtà ispirazione da uno scenario vegetale quanto poetico: la pioggia di pàmpini che circonda il pioppeto dietro la casa natale dell’artista. index La mitologia greca che narra della nascita di Crespino,vede negli alberi sorti lungo le rive del Po, le sorelle di Fetonte, figlio di Elio e della ninfa Climene, il quale morì per mano di Zeus, nel tentativo di fermare il carro che trasportava il Sole, del quale Fetonte aveva perso il controllo provocando sulla terrà incendi e siccità. Le sorelle Eliadi, accorse a piangere la fine tragica dell’amato fratello, furono trasformate in pioppi, e le loro lacrime in ambra. Ogni infiorescenza è “fermata” a soffitto, da Elisa, in un punto luminoso, che racchiude in sè tanto l’origine quanto la trasformazione, reiterazione del concetto di divenire (o “erranza”) che non ha mai fine.   12961556_982660958454292_6926622722884265721_n 13124841_1274433712584497_6280223040191314513_n BINDWOOD. Installazione site specific di Elisa Bertaglia per ERRANZA. DEL RADICANTE E DI ALTRI SEGNI. Doppia personale delle artiste Elisa Bertaglia e Enrica Casentini, a cura di Petra Cason Olivares. 31 marzo – 29 maggio Atipografia, piazza Campo Marzio 26 Arzignano (VI)

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LAGGIU’, TERRA.

Ancora un mesetto e poi Laggiù, Terra.
Mi sono arrampicata in cima alla colonna su cui sta in vedetta Colombo da un po’, a prendere tutto il vento che entra a Barcellona, dove la Rambla termina e la città si fa porto.
E mi è venuta voglia di guardare, un po’ come fa lo stupido, il suo dito, dove indicava. Nè io nè lui sappiamo bene cosa ci sia da quella parte, ma di una cosa siamo certi. Laggiù c’è un cambio di scenario.
 
 
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