Cavalcare l’Onda. L’appartamento relazionale di Aurora Di Mauro

A poco più di una settimana dall’inizio di ArtVerona mi trovo con Aurora Di Mauro, per un aperitivo e una conversazione informale all’ombra delle logge restaurate di fresco della basilica palladiana e di fronte a due bei bicchieri di cabernet di un rosso scintillante. Apprezzo che lei, dopo una lunga giornata di lavoro, abbia preso un treno per raggiungermi a Vicenza e parlare con me, in una sorta di anteprima al salotto di TULPENMANIE del suo particolarissimo progetto d’arte, Settima Onda. Da un po’ speravo di scambiare con lei alcune considerazioni sul tema del “valore dell’arte”, curiosa di ascoltare la sua personale declinazione e vedere, attraverso le sue parole, come sia riuscita a trasmettere la sua attitudine, all’arte. E, cogliendola ancora nelle sue vesti di museologa, appena uscita dall’ufficio, colgo l’occasione per chiederle di raccontarmi qual è lo stato delle cose. Il suo ruolo di museologa all’interno di un’istituzione pubblica qual è la Regione Veneto, non è affatto facile da svolgere oggigiorno, sia per chi dirige un museo sia per chi dalla scrivania di una pubblica amministrazione deve avere un ruolo di coordinamento. In sintesi pare emergere che, tra le fila della dirigenza storica (ma questo è, tristemente, all’ordine del giorno, in Italia), non ci sia nessuna volontà di apertura alle nuove (ormai neanche tanto più nuove) modalità di “fare” il museo: le collezioni non sono più pensabili solo ed esclusivamente come un tesoro di beni materiali da esporre sopra piedistalli e da contemplare estasiati. Le tecnologie interattive consentono di trasmettere anche un’enorme quantità di informazioni che vanno a comporre i beni immateriali, i saperi, che è impensabile trattare come materiali di secondo livello perchè non conservabili sotto formaldeide. Ma ancora niente, cara Italia: nessuna apertura per realizzare musei innovativi, al passo con i tempi. Che hanno, questi poveri musei, di che malattia soffrono? Soffrono di una cronica incapacità di gestione delle risorse – poche – a disposizione e dell’incapacità a intendersi come imprese culturali. Nei primi anni Novanta la “pillola” che lo Stato cercò di far ingurgitare ai musei statali, assicurando che – nonostante il sapore disgustoso – avrebbe risanato la situazione catastrofica in cui versavano, si chiamò “Legge Ronchey”. Posologia: 1 o 2 manager, da prendere nel direttivo museale, prima o dopo i pasti. Attenzione: creano assuefazione.

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Strategie post-boom. TULPENMANIE ad Independenst/ArtVerona

Qual è il processo per modificare (e possibilmente migliorare) lo stato delle cose? Ipotizziamo tre indispensabili fasi: la prima è la presa di coscienza del problema, la seconda è lo studio della strategia che comporti un superamento del problema, e la terza e ultima è l’applicazione della teoria alla pratica, ossia la fase esecutiva, quella che comporta un cambiamento reale. Sto sintetizzando in maniera esasperata. Ma credo che, in questo semplice schema, manchi un altrettanto semplice quanto necessario elemento: il confronto. Questo preambolo forse serve più a me, ora, che a voi ai quali vorrei spiegare il motivo per cui sarò (anche) quest’anno ad ArtVerona e che cosa, nello specifico, andrò a fare. Ma sono certa dell’utilità di questo elemento nel sistema. Il confronto, il dialogo, lo sforzo di rapportarsi con qualcun altro, che porti la riflessione che stiamo compiendo fuori dalla nostra mente, oltre le elucubrazioni che spesso si inceppano in loop, è un fattore determinante per lo sblocco di un “meccanismo difettoso”. Independents ha scelto tra le molte domande che gli sono state presentate 25 realtà indipendenti e creative che presenteranno “un progetto che ragioni sulla situazione italiana e che offra al visitatore di ArtVerona uno sguardo altro, uno sguardo nuovo, indipendente, sulla situazione nella quali tutti viviamo.”artverona2014 Io, ad ArtVerona, vado a portare una rete: la risultante, l’esito raggiunto finora, del mio lavoro (una missione) di relazione nell’ambito dell’arte contemporanea. Ambisco a far diventare la curatela la mia unica ragione di vita, ma nel frattempo, negli ultimi mesi a dir la verità, ho messo in secondo piano l’esigenza di “fare” per concedermi il tempo (il lusso!) di osservare, studiare, capire. Ho guardato attentamente come si lavora, nell’ambito curatoriale, parlando e relazionandomi con chi lo fa bene e da anni, saggiando l’esperienza altrui per apprendere quasi per osmosi: la stretta vicinanza comporta – spesso – un confronto più profondo, e talvolta implica uno “scontro tranquillo”. E’ giusto che vengano minate certe false sicurezze (la zavorra della comodità) che non contribuiscono ad un miglioramento della propria identità (professionale). Ho scelto che sia la “modalità relazionale” il mio approccio nei confronti dell’arte contemporanea e, se l’anno scorso a Independents avevo iniziato questo percorso con la “poltrona psicanalitica” del mio Take Care Corner – sprofondati nella quale si sfogavano gli artisti e i curatori che avevo come ospiti – quest’anno con TULPENMANIE, ancora più consapevolmente (perchè nel frattempo ho scoperto che ciò che io avevo fatto fin d’ora “di pancia” Obrist lo fa da decenni con metodo) ho allargato il cerchio degli inviti, ma ho stretto i legami con i miei interlocutori. Non più una sola poltrona, ma molte, un piccolo salotto per creare una dimensione informale, funzionale al confronto. Il mio sito, Olivares cut, che uso come contenitore dei miei scritti sull’arte, ha contribuito anch’esso ad aprire varchi, a intrecciare legami, approfondire conoscenze. E nel frattempo ho cominciato a scrivere anche per Artribune. E dopo mesi di chiacchierate, telefonate, viaggi in treno, residenze in quota, messaggi scritti e ricevuti, finalmente posso presentarvi quello che è la mia declinazione del tema scelto per quest’anno da Independents (la Bolla) e chi e perchè ho invitato a discuterne. Che rumore fa una bolla quando esplode? Temo che se la membrana della bolla sia stata tirata così tanto, così a lungo, da assumere l’aspetto di una leggerissima bolla di sapone, il rumore dello scoppio sia tra l’inudibile e l’irrilevante. E’ solo a distanza di tempo che si percepiscono i danni compiuti dall’implosione (più che esplosione) della bolla di un mercato economico giunto agli estremi dopo anni di rigonfiamento esasperato, partito dalla speculazione immobiliare che a domino a fatto cadere, una dopo l’altra, le roccaforti dell’economia mondiale. Lo “sboom”, come Adriana Polveroni aveva intitolato la sua pubblicazione del 2009, ha inevitabilmente coinvolto anche il mondo dell’arte contemporanea, a tutti i livelli. E adesso? E’ passato un lustro abbondante, ormai, dalla drastica inversione di tendenza che ha visto, se non un’interruzione, una notevole riduzione di esborso di denaro dedicato all’arte (sia esso proveniente da fondi pubblici o da privati ancora disposti ad investire tanto nell’acquisto di opere quanto nel finanziamento della ricerca), e si è ormai già stanchi perfino di sentir parlare di “crisi”, economica, di valori… Ad Adriana Polveroni, direttrice di Exibart ed attenta osservatrice del mondo dell’arte,  vorrò chiedere cosa è cambiato da quel 2009, al tempo del quale raccontava della controtendenza a chiudere (dopo anni in cui se ne aprivano sempre di nuovi)  i musei-gioiello, autoreferenziali delle archistar e della classe politica di tiro, ma destinati a morire perchè manchevoli di un programma di gestione d’impresa a lungo termine. Di questo avevo già cominciato a discutere con Pieremilio Ferrarese, docente presso il dipartimento di Management di Ca’ Foscari, e del paradosso che l’Italia, così ricca di beni culturali, non sia in grado di ragionare, o rivedere se stessa in chiave di “industria culturale”, tentando di riposizionare la cultura all’interno della catena del valore, capace essa stessa di produrre valore (economico). Ora che le fondazioni private hanno quasi totalmente preso il posto che era destinato al settore Pubblico, incapace di sopperire al sostenimento della ricerca (la sperimentazione anche in campo artistico necessita di essere sovvenzionata – e di questo vorrei parlarne con Virginia SommadossiProject developer e presidente di Fies Core, e Federica Tattoli, Editorial Assistant per ATP-Diary e Managing Editor per Fruit of the Forest), mi chiedo quanto l’anima “for profit” aziendale vincoli le scelte stilistiche degli artisti, piegati alle volontà della committenza che paga loro il (giusto) fee. Vorrò sentire che ne pensano in proposito Aurora Di Mauro, con una grande esperienza in materia di gestione dei musei (per la Regione Veneto) e creatrice di “Settima Onda”, personale progetto domestico/espositivo, Carlo Sala, critico e curatore presso la Fondazione Francesco Fabbri, e Valentina Bernabei, giornalista free lance, autrice del blog “parole D arte” e communication strategist del progetto “Sogni nei cassetti” del Laboratorio di Management dell’Arte e della Cultura di Ca’ Foscari. La fantomatica “crisi” dovrebbe aver portato di buono un’inevitabile scrematura, anche nel mondo dell’arte contemporanea. La razionalizzazione delle risorse economiche ha veramente bloccato lo sperpero di risorse, e le poche rimaste sono realmente ricadute a favore di una qualità più mirata, tanto di proposta artistica quanto di fruizione di pubblico, o è rimasta un’utopia nelle parole di Pierluigi Sacco, quando ipotizzava che il futuro dell’arte contemporanea, nel post-boom, fosse in linea con l’evoluzione della società post-industriale? L’arte dovrebbe essere in grado di mantenere un ruolo sociale reale, non piegandosi alle esigenze di mercato e alle voglie della committenza, ma consapevolizzarsi e guardare all’essenziale. Ma il ruolo degli artisti è doppiamente complesso perchè, per Sacco, è loro la responsabilità di condurre il pubblico (e quindi il mercato) verso una consapevolezza di ciò che stanno per fruire. Di questo vorrò confrontarmi con figure come Anna Quinz (Managing Editor e Creative Director di Franzmagazine) ascoltando il suo punto di vista sulla cultura come “fatto sociale”, in grado di migliorare la qualità della vita agendo sul luogo in cui si vive da protagonisti e non da spettatori, e con Giulia Galvan (dance dramaturge and curator), da tempo coinvolta in un progetto di sensibilizzazione (del pubblico/cittadino) all’ambito territoriale attraverso l’uso dell’arte come mezzo e non come fine. Vorrò confrontarmi con curatori come Marco Tagliafierro e Silvia Petronici, cercando di analizzare assieme a loro in che modo sia, in questi ultimi anni, cambiato sensibilmente o meno l’approccio del pubblico nei confronti dell’arte contemporanea, e quanto in questo incida l’artista e quanto il curatore. Vorrò chiedere a Mirko Baricchi (artista) quanto sia necessario per l’artista essere manager oculato e promoter di se stesso. Chiederò dunque, agli artisti (loro, veri protagonisti del mondo dell’arte contemporanea) che vorranno intervenire, se sentono il peso della responsabilità, nei confronti del pubblico, che li investe l’essere portatori di “valore”. Il “pubblico estemporaneo” di ArtVerona, gli artisti in particolare, saranno invitati a partecipare ai dibattiti attraverso una call.
In questi giorni, inoltre usciranno alcune interviste, sempre sul tema del VALORE DELL’ARTE, a figure professionali gravitanti nel mondo dell’arte contemporanea.

Il programma di TULPENMANIE si svilupperà con il seguente calendario (in via di definizione)

  • GIOVEDì 9 OTTOBRE h. 16.00 – 17.30
    La sperimentazione dei linguaggi artistici e l’influenza esercitata dalla moda e da altri fattori sociali. / Il ruolo del curatore: come è cambiato negli ultimi anni?
    Ospiti: Federica Tattoli, Carlo Sala, Marco Tagliafierro, Martha Jiménez Rosano, Cornelia Lochmann.
  • VENERDì 10 OTTOBRE h. 16.00 – 17.30
    L’industria culturale dell’arte. Cosa crea valore? / La situazione museale e il valore degli spazi anticonvenzionali. / Il rapporto pubblico/privato nella gestione dei fondi alla cultura.
    Ospiti: Aurora Di Mauro, Pieremilio Ferrarese, Valentina Bernabei, Adriana Polveroni.
  • SABATO 11 OTTOBRE h. 16.00 – 17.30
    Il valore sociale e relazionale dell’arte. / Il valore della ricerca in ambito artistico. / Il ruolo dell’artista in una prospettiva di responsabilizzazione del pubblico.
    Ospiti: Anna Quinz, Virginia Sommadossi, Giulia Galvan, Mirko Baricchi, Silvia Petronici. 

I dibattiti sono aperti al pubblico.Per intervenire come ospite ai dibattiti scrivetemi a petra@olivarescut.it.
Trovate TULPENMANIE ad ArtVerona > Fiera di Verona, padiglione 11 (al centro, sulla sinistra)

Un ringraziamento a LagoStore, sponsor tecnico di TULPENMANIE. A Leonardo Onetti Muda, per l’immagine di Tulpenmanie (Uncut, 2014). A Alessandro Giacomelli, per la grafica.

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APPARIZIONI CREATIVE- BOLZANO SI PREPARA PER ROSENGARTEN FESTA

Un condensed di questo articolo è apparso su Artribune il 5.09.2014

Immaginate di avere davanti a voi il genio della lampada: sareste in grado di esprimere, in una sola volta, i vostri desideri? E altrettanto pronti nel vederveli comparire di fronte?
Rosengarten Festa quest’anno fa le veci del ‘genio’, e farà apparire, davanti agli occhi di una Bolzano curiosa, i desideri e le istanze di una cittadinanza attiva e propositiva.

Per APPARIZIONI | ERSCHEINUNGEN Franzmagazine, promotore del progetto, ha chiamato all’appello le realtà creative che gravitano nella zona ibrida (un melting pot di attività diverse, che portano avanti valori condivisi) quale è Rosengarten, chiedendo loro di dialogare con chi quell’angolo di città lo vive quotidianamente: le necessità e i (bi)sogni sono stati messi a nudo e, su quelli, una compagine di artisti e architetti invitanti alla Residency di maggio, ha lavorato a creare delle “visioni di mondi im-possibili”, a partire dai cortili nascosti dei condomini, gli spazi sfitti che ritmano le strade, i luoghi di confine che delimitano, spesso solo idealmente, una zona da un’altra.

Queste le “menti pensanti del collettivo estemporaneo: Roberto Tubaro, architetto (Bolzano), Carla Cardinaletti, artista (Bolzano), Lisa Castellani, artista (Vicenza), Luca Bertoldi, artista e ricercatore (Trento), Claudia Raisi, architetto (Milano), Campomarzio, collettivo di architettura e progettazione (Trento), Scaf.Scaf, artista (Bolzano/Albania). A guidare e indirizzare i lavori, Eleonora Odorizzi, architetto del collettivo trentino minove.

Ed ecco quindi l’apparizione: all’imbrunire, sui palazzi di Rosengarten, compariranno come in un gigantesco caleidoscopio, immagini che proporranno una rilettura di questi contesti urbani sopiti, per stimolare una riflessione critica sul “ciò che potrebbe essere”, ma ancora non è. 

Anche altre apparizioni popoleranno via Latemar che domani ospiterà la Festa dalle 18 fino alle 24: a fianco di attività satellite, 
5 I.point mostreranno al pubblico altrettanti progetti, in stato embrionale, nati proprio ascoltando le necessità del quartiere, primo fra tutti il bisogno di sopperire alla mancanza di uno spazio pubblico di aggregazione e socializzazione: allora ecco spuntare PLAYGROUND ROSENGARTEN, un parcogiochi pop-up, facile da aprire e spostare (Scaf.Scaf)BACKYARD PARTY KIT, un kit per realizzare la propria festa di condominio (D. Klotz)ROSENFINDER, un portale web che identifichi le realtà (commerciali, aziendali) del quartiere in base alle risorse che offrono (pixxelfactory)LISTENING_SOUND_LEARNING, un cinema “sensibile” di quartiere, che aggreghi udenti e non udenti (Elternverband hörgeschädigter Kinder)YOUR PUBLIC PLACE, un’azione partecipativa, da realizzare il 18 settembre, per contrastare l’assenza di panchine o sedute pubbliche, alla quale la cittadinanza è invitata (W13 designkultur).

Band e dj ritmeranno Rosengarten Festa per tutta la durata dell’evento.

Un grande in bocca al lupo a Franzmagazine, che lì so da giorni a naso in sù a scrutare le nubi, alla ricerca di un po’ di sole!

 

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Le bambine dell’altopiano – Elisa Bertaglia e Plateau Project

“Per attraversare la Colonia hai bisogno di una mappa”. Elisa prende dalla borsa un foglio piegato in quattro e lo apre davanti ai nostri occhi. Credo che neppure con quello sarei in grado di destreggiarmi tra il dedalo di corridoi vuoti che mi si para davanti. Ma a tentare l’esplorazione non sono io, ma il compagno di Maria, con la piccola Clara vestita da orsetto infilata nel marsupio e per niente infastidita dal freddo che investe anche la Colonia. Padre e figlia si incamminano lungo la rampa, mentre io ed Elisa riprendiamo la nostra chiacchierata. Elisa Bertaglia, che domani inaugurerà Plateau project, è una degli artisti che Dolomiti Contemporanee ospita nel programma estivo di residenze d’artista, attivato da un paio di mesi all’interno del nuovo “laboratorio in ambiente” intitolato Progetto Borca. Le ultime due settimane l’hanno vista all’opera con un lavoro site specific nella “capanna media” della Colonia dell’ex Villaggio Eni. Capanna che in realtà è uno stanzone con un tetto a capanna, dieci metri per dieci di pavimento, e assi di legno a coprire gran parte del cemento della muratura. Il linoleum, un tempo a venature viola e gialle, è sbiadito dalla luce entrata ininterrottamente da cinquant’anni dalle vetrate ampie, ed è ricoperto per intero da uno strato di polvere che completa la colorazione ormai virata in un grigio azzurrato.

Borca non è un luogo facile. Tra gli anni 60 e 70 Enrico Mattei e l’arch. Gellner (con l’aiuto di Carlo Scarpa) diedero vita ad un’incredibile progetto di architettura e urbanistica sociale, in una spinta paternalistica nei confronti dei dipendenti Eni, che previde la realizzazione, su un’area di 400mila metri quadrati, di un villaggio estivo comprendente 263 villette unifamiliari – immerse nel bosco che ha sostituito il ghiaione alle pendici dell’Antelao – un camping a tende fisse in legno (invaso ancora oggi di ragazzini chiassosi per tutto il periodo estivo), e il grande monumento silenzioso della Colonia. Quest’ultima è un complesso di 30mila metri quadrati composto da 17 padiglioni, 4 km di corridoi, un’immensa aulamagna vetrata con un lampadario degno di una sala da ballo surrealista, con docce, mense e dormitori, che fino agli anni ottanta ospitava contemporaneamente centinaia e centinaia di bambini, per finire poi in uno stato di completo abbandono. Questo fino a pochi mesi fa, quando la proprietà dell’imponente complesso decise di coinvolgere Dolomiti Contemporanee in un progetto di riconsiderazione dell’area, sì da trovare nuovo scopo agli stabili abbandonati ormai da troppi anni.

  • Corridoio della Colonia (foto di Sergio Casagrande)
  • Verso il bosco (foto di Sergio Casagrande)
  • L'aula magna della Colonia (foto di Sergio Casagrande)
  • La Capanna Media della Colonia (foto di Sergio Casagrande)
  • Plateau Project (foto Olivares cut)
  • Elisa Bertaglia al lavoro (foto di Sergio Casagrande)

Dolomiti Contemporanee, avvezza a instaurare dialoghi proficui tra l’ambiente dolomitico e gli spazi artificiali inattivi o giacenti in uno “stato di stupidità” (fermi lì a far nulla, vuoti senza più motivo d’essere) – come dice il suo curatore, Gianluca D’Incà Levis – non si è fatta spaventare dall’imponenza del luogo, nè dalle aspettative su ciò che potrà o non potrà diventare. Un luogo pieno di storia che fa parte del nostro Paese (l’uccisione di Mattei fu la causa principale dell’arresto dei lavori di ampliamento del Villaggio), un “case study” di architettura sociale, con un’attenzione per i materiali e le forme tale da assicurare un’armonica integrazione dei complessi edificati con la natura circostante. Eppure i tanti anni di disuso sono sfociati spesso in dibattiti sulle sorti del villaggio, e una campana suonava anche per l’abbattimento incondizionato delle strutture. Ma il cane a sei zampe (impresso su quasi ogni oggetto, all’interno della Colonia, dalle tazze alle posate alle coperte), seppure un po’ acciaccato e polveroso, difficilmente si farà cacciare via…

Il cane a sei zampe (logo ENI) su una coperta

Il cane a sei zampe (logo ENI) su una coperta

Elisa è alla Colonia dalle sette di mattina. Arriva in auto (dorme poco più in sù, in una delle villette gellneriane, la 171, dedicata alla residenza degli artisti), spalanca il grande portone d’ingresso e, aperta la porta che dà sul refettorio della Colonia, percorre alcuni minuti i corridoi semibui. Sono rampe che seguono l’andamento del terreno fuoristante, su cui posa le fondamenta la colonia, e il declivio la fa scendere di diversi metri rispetto il piano d’ingresso. Si ferma a metà della discesa, dove si apre la “capanna media”, e riprende a lavorare, ripetendo giorno dopo giorno gli stessi gesti e rispettando il preciso piano di lavoro che si è data. Rimarrà lì per dieci giorni, divide il pavimento in dieci rettangoli uguali e ogni giornata sarà dedicata alla lavorazione di uno di essi. Dalle sette di mattina alle sei di sera, cioè sfruttando tutta la luce naturale che entra con difficoltà dalle vetrate della capanna. Il bosco fuori (alberi sfuggiti al controllo dell’Uomo) è così fitto da creare una cortina. Se piove, poi, Elisa è costretta ad accendere una pila per aiutarsi a vedere meglio. Pranza lì con qualche biscotto o dei crackers (il pasto vero è la sera, quando cena nella mensa del campeggio) quasi neppure bevendo, per non dover uscire dalla colonia con il rischio di chiudersi fuori nel bosco. E’ lì da sola. E disegna.

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Capanna media, Colonia (foto archivio DC)

Fuori ci sono poco più di sei gradi, e dentro uguale. La capanna non è riscaldata e i vandali che bazzicano di notte per la Colonia abbandonata hanno rotto la finestra più alta. Oltre al vento entrano tutti i rumori del bosco. Elisa ha cinque o sei maglie addosso. Si accuccia sopra un maglione per ripararsi dal freddo del suolo e disegna. Disegna sul pavimento, sulla coltre di polvere che il tempo ha depositato, e lascia a sua volta una traccia, leggera, effimera e quasi evanescente, del suo lungo, costante e silenzioso passaggio lì. Disegna, come fosse una texture, centinaia di piccole bambine fluttuanti, rannicchiate su loro stesse, come stessero un po’ dormendo, un po’ facendo delle capriole nell’aria, un po’ nuotando. Un esile tratto a carboncino ne delinea i corpicini, per ciascuna segna i contorni del costumino da tuffatrici. E per ognuna di esse cela il capo, nascosto da una biscia, che pare avvolgerla come una morbida sciarpa. Quel prezioso, delicatissimo “mandala” di grafite è stato pensato da Elisa per non durare. Chi ci camminerà sopra un po’ alla volta lo distruggerà. Un lavoro organico – lo chiama lei – sopra lo sporco, la patina del tempo; di mimesi, perchè si scorge solo con uno sguardo attento, confondendosi tra le venature e i solchi del linoleum; che ha chiamato Plateau coniugando l’idea dell’altipiano montano a quella di “pavimento d’altitudine”, su cui ha scelto di lavorare, pianoro posto alla sommità di una delle tante rampe della Colonia; una distesa di polvere dalla quale emergono le bambine, giocose, selvatiche (la biscia come elemento che le riconduce alla loro parte più viscerale, istintiva), eco delle presenze chiassose di un tempo che abitavano per i mesi estivi quegli spazi. Ora, un’opera così integrata con lo spazio, che viene percepita come simbiotica con l’ambiente, non invasiva ma fortemente presente, non è che l’esito di quello che io considero il “vero” lavoro di Elisa Bertaglia alla Colonia: la scansione del tempo che lei ha dedicato alla realizzazione dell’opera. Quelle nove, dieci ore al giorno della sua esistenza che ha dedicato alla realizzazione dell’opera, avvolta dal silenzio più totale, nel freddo rigido di un agosto invernale, in una solitudine che non l’ha mai spaventata nè le ha mai pesato (della quale invece è andata fortemente in cerca) sono parte dell’opera stessa quanto le bambine di grafite.

Plateau Project (foto d'archivio DC)

Plateau Project (foto d’archivio DC)

Questa è la mia visione dell’opera, chiaramente, letta all’interno del contesto esperienziale di una residenza d’artista forse un po’ fuori dagli schemi; avendo conosciuto l’artista ed avendo instaurato con lei un legame empatico in un tempo brevissimo, fatto di confidenze e considerazioni profonde sul lavoro come trasmissione delle aspettative, tensioni, ricordi ed emozioni personali. Probabilmente è quello che ogni artista cerca di trasmettere, all’interno del proprio operato. Ma, chissà perchè, io l’ho capito così chiaramente solo lì, di fronte ad Elisa e alle sue bambine dell’altopiano.

******************************************************************************* info dal sito www.progettoborca.net Domenica 31 agosto, alle ore 15.30, alla capanna media della colonia dell’ex villaggio eni di borca di cadore, verrà inaugurata l’opera grafico-installativa plateau project di elisa bertaglia. L’artista ha realizzato il proprio lavoro attraverso uno dei programmi di residenza attivati per l’estate 2014 da dolomiti contemporanee con minoter per progettoborcaAppuntamento alle ore 15.00 di domenica davanti all’ufficio vendite del villaggio. 

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