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- 03, 2015 - EVENTI, MOSTRE, RACCONTI D'ARTE - 0 commenti
Casa. Un racconto alla Deriva
Incontrai quel tale in treno. Stavo viaggiando alla volta di Treviso e mi imbattei in un uomo anziano, un’ottantina d’anni, all’incirca. Aveva una barbetta lunga e appuntita, da capro, e gli occhi vispi, che contrastavano con la pelle rugosa che li contornava. Con quelli scrutava l’intero scompartimento, saltando da un passeggero all’altro come cavallette affamate. Quando si fermò sui miei occhi cominciò a raccontare, senza un preambolo. E prese a narrarmi della Casa di Follina.
Mi disse che l’uomo che viveva in quella Casa era un artista, uno di quelli con la A maiuscola, e che la parlata, cadenzata e musicale, tradiva le sue origini emiliane. Ma il vecchio non si dilungò molto su dettagli come questi. Preferì raccontarmi di come, a Follina, la gente del posto avesse cominciato a vedere le cose più strane, dall’arrivo dell’Artista, come delle apparizioni…
Al calare del sole comparivano, tra i campi dietro Casa, esseri strani, come delle ombre. C’era chi si ostinava a credere fossero scherzi della mente, magari di chi aveva bevuto qualche bicchiere di troppo…Ma altri no, sostenevano fossero reali. Dicevano fossero sgusciate fuori dalla Casa attraverso le fessure tra i mattoni, appiattendosi come i topi o i serpenti, ma che, una volta giunte all’aperto, queste sagome scure si fossero sollevate in piedi assumendo fattezze umane. Parevano dei viandanti, avvolti in un pesante mantello, ma dicevano ci si potesse guardare attraverso: avevano un buco all’altezza del ventre, ma non i mantelli! Gli interi corpi di questi misteriosi signori. Gli si poteva guardare attraverso, e scorgere gli alberi e i campi dietro di loro.
Qualche temerario riuscì perfino a scorgere l’interno, della Casa: un ragazzino raccontò di aver visto cani correre in verticale sulle pareti, saltare e rincorrersi tra gli stendardi appesi, lasciandosi dietro, nel loro balzare, scie di colore nerastro. Stormi di uccelli migratori vivevano sulla mensola sopra il camino, e passavano le giornate intingendo le zampe nel lievito madre (un intruglio misterioso di colore e acqua che l’Artista teneva costantemente apparecchiato sopra il tavolo da lavoro) come fossero gambe di sedano in pinzimonio per poi saltellare per lo studio riempiendo di macchie le carte ben stese sul pavimento. “Avrebbe dovuto vedere quelle carte!”, diceva il vecchio. L’Artista le aveva trovate in vecchi archivi polverosi e, su quelle, le bestiole starnazzanti andavano a posarsi. Ora si appollaiavano sulle trame delle stoffe che pendevano dal soffitto, piramidi di piume in bilico. Ora invece compivano piccole migrazioni tra lo studio e il salotto: avevano confuso in dentro con il fuori, e non c’era verso di farli smettere nella loro buffa impresa. Alcuni di loro, compiendo questi insoliti traslochi, si portavano dietro grossi tronchi, o massi franati. Li tenevano legati a dei fili sottili ed ogni filo era stretto nel becco. Le partenze erano sempre complesse, e nella foga di alzarsi in volo capitò che un tronco andasse a sbattere sui barattoli di colore che stavano sopra la cassettiera, macchiando le tele sottostanti.
HALL ART PROJECT. L’arte contemporanea in hotel
Domenica 1 marzo alle 18.30 si terrà la prima esposizione del mio nuovo progetto curatoriale, HALL ART PROJECT, presso le sale al piano terra del prestigioso Hotel Palladio, nel centro storico di Vicenza, a pochi passi da Piazza dei Signori.
Il progetto espositivo presenta opere scelte di giovani artisti già inseriti nel circuito dell’arte contemporanea– con una modalità che unisce l’esperienza di una piccola galleria d’arte all’innovazione di una vetrina virtuale (questo il sito dedicato).
I lavori saranno presentati sotto forma di piccole personali rinnovate con cadenza mensile, accomunate da una grande qualità di elaborazione pur nelle differenti cifre stilistiche.
HALL ART PROJECT apre con HYPOTHERMIA, personale dell’artista Gabriele Brucceri (vincitore del Premio Fabriano Watercololour International Prize nel 2014) con una serie di lavori che ben identificano il risultato della sua ricerca, dall’estrema complessità tecnica e compositiva. Una pittura elaborata, a tratti fumosa, a tratti acquatica. Il soggetto dell’opera attinge al reale ma è sempre inteso come pretesto per quello che è il vero fulcro del lavoro: l’opera pittorica in sé, e con essa la deframmentazione, la scomposizione che priva l’occhio, ad uno sguardo ravvicinato, di un’immagine finita, definita.
Apertura mostra: dall’1 al 22 marzo 2015.
Dal 17 aprile sarà visitabile FRAGILE, personale del fotografo Leonardo Onetti Muda.
In esposizione scatti scelti da due recenti serie, “URBANA NATURA” e “INDOLO”, entrambi lavori che si interrogano sul concetto del divenire e sull’impermanenza propria dell’essere. La Natura “in cattività” è il soggetto privilegiato di questi lavori, e si mostra in tutta la sua potenza, seppur effimera e destinata alla caducità.
La mostra sarà visitabile presso gli spazi dell’Hotel Palladio (Contrà Oratorio dei Servi 25, Vicenza) dal 17 APRILE al 31 MAGGIO 2015.
Tutte le info al sito www.olivarescut.it/hall
Vi aspetto all’inaugurazione DOMENICA 1 MARZO dalle 18.30
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- 01, 2015 - EVENTI, MOSTRE, RACCONTI D'ARTE - 0 commenti
La faccia oscura dell’arte
Ricevo una telefonata in tarda mattinata, sabato. E’ Elena Dal Molin, corpo e mente di Atipografia. Mi chiama per chiedermi di intervistare – per la web radio dell’associazione – i protagonisti della serata. Detto, fatto. Dopo poche ore mi ritrovo dietro la spessa tenda nera che divide lo spazio espositivo di questa meravigliosa ex tipografia (trasformata in luogo dedicato al contemporaneo) dalla saletta dedicata alle registazioni con, a fianco a me, uno alla volta, Carlo Bernardini, artista visionario che ha appena inaugurato la personale dal titolo Coordinate Invisibili, Luigi Meneghelli, un critico-poeta (come lo chiama Elena) e Claudio Cervelli, light designer e uomo di squisita sensibilità.
Questo un piccolo racconto della mostra, fresca di inaugurazione.
Atipografia non ha niente a che vedere con le gallerie intonse, dalle grandi pareti bianche, dentro delicatissimi spazi architettonici progettati dalle archistar e pieni di limitazioni, dice Carlo Bernardini. Coordinate invisibili, questo il titolo della sua personale, è nato con e dalla relazione con quello che è uno spazio crudo, fortemente caratterizzato, legato inscindibilmente al suo passato, di questa storica tipografia della provincia vicentina, ma che, con le sue pareti scrostate – che mostrano la nuda pelle dei mattoni – e le ampie vetrate piombate, si presenta come una “vera e propria palestra” per l’artista e la sua ricerca artistica. Bernardini ha inteso l’asprezza del luogo, le difficoltà oggettive dello spazio, come un valore aggiunto al suo lavoro, site specific per antonomasia. “Vedere è soprattutto ‘vedere il problema’ e ciò che gli sta dietro. L’artista più attento cerca di ridescrivere nell’opera l’itinerario del proprio sguardo”, scrive Luigi Meneghelli nel testo introduttivo all’opera di Bernardini. Perchè è complesso parlare di visibile quando la sostanza di un intero operato poggia sull’invisibile.
Le opere di Bernardini sono più che installazioni di luce. Le geometrie di luce, prodotte dall’estensione al massimo della sua capacità di corde di fibra ottica, scardinano la prospettiva del reale abbattendo virtualmente i limiti oggettivi delle architetture sovrapponendo ad esse nuovi piani intuibili. Una geometria della mente, ma tangibile – com’è il materiale luminoso utilizzato – e attraversabile, nonostante le linee, raccordate tra loro per mezzo di punti dalla luminosità accentuata, sembrano formare, nello spazio, piani invalicabili.
Queste grandi e leggerissime “opere ambiente” dialogano con un buio non subìto ma vissuto. Nell’oscurità notturna in cui è avvolta la grande sala espositiva non si percepiscono che questi sottilissimi e ben definiti fasci di luce, dall’intensità eterogenea. Ma, nella stessa sala illuminata a giorno dalle grandi vetrate, le opere si rivelano nella loro doppia natura, svelando un esoscheletro di metallo, a sostegno e raccordo delle fibre ottiche, che diventa parte integrante del fattore installativo. Ganci di accaio, anime in ferro, piastre affastellate una sull’altra: sono le “spine dorsali” – come le chiama il loro stesso fautore – delle opere luminose, e mostrano un’estetica altrettanto forte quanto quella messa in gioco dalla luce che buca il nero denso.
Un’altra opera entra direttamente a contatto con lo spazio di Atipografia e, come spesso succede nei lavori di Bernardini, se ne frega dei limiti oggettivi delle superfici materiche volendo ad ogni costo oltrepassarle, per creare, attraverso quei segni disegnati con la luce, una continuità spaziale tra interno ed esterno. L’opera, composta da sottilissimi tubi di vetro riempi dal gas neon (ma privi degli elettrodi che necessiterebbero per eccitare il gas attraverso l’energia elettrica e produrre la luce “piatta” tipica del mezzo) si fa spazio attraverso i vetri delle finestre, bucandoli e stando letteralmente a metà tra il dentro e il fuori. Questa delicata piramide di linee di vetro illuminato contiene al suo interno visibile una bobina di Tesla la quale, seppure molto piccola, permette alla struttura di illuminarsi, sostituendosi alla fonte di energia elettrica tradizionale, ma producendo nei tubi intensità luminose differenti, in base alla vicinanza di questi con la bobina.
Qui un aspetto, che svela, se vogliamo, le origini della ricerca artistica di Bernardini: se da un lato l’uso del neon richiama alla mente Fontana e le sue sperimentazioni sull'”invasione” spaziale degli anni Cinquanta (che rompeva con le tradizionali concezioni di supporti e modalità artistiche a favore della tecnologia) plasmando il tubo di neon e creando un linguaggio totalmente innovativo, dall’altro lato non possiamo non ricondurre l’aspetto di “ambiente”, che assume nel suo complesso l’apparato di opere nello spazio, all’attività di ricerca della Op Art, del Gruppo T e delle varianti prospettiche messe in campo, attraverso l’applicazione degli studi di ottica e cinetica, negli ambienti all’interno dei quali lo spettatore “viveva” l’opera e, gradualmente, cominciava ad interagire con essa, modificandola. Così qui, di fronte ai “neon ritoccati” di Bernardini mi trovo ad imitare il gesto dell’artista al mio fianco che, usando la mano come conduttore di elettricità, attiva i neon spenti avvicinandosi ad essi.
La rifrazione sui vetri bui della piramide imbroglia il nostro occhio, che non riesce più a percepire cosa è dentro e cos’è fuori, quali le linee reali e quali le luci riflesse, in un continuo gioco di rimandi e cambi di visione…
La mostra rimarrà esposta ad Atipografia fino al 14 marzo. Un consiglio? Andateci non appena sarà sceso il sole…
Coordinate Invisibili di Carlo Bernardini.
Dal 17 gennaio al 14 marzo 2015.
Dal mercoledì al venerdì dalle 15 alle 19.
Sabato e domenica dalle 15 alle 20.
Atipografia Via Campo Marzio 26, Arzignano (VI)
Photo courtesy Luca Peruzzi e Atipografia
Operazione Goldineye. Dai e dai…?!
Adriana Polveroni nel 2009, nel suo “Lo sboom. Il decennio dell’arte pazza tra bolla finanziaria e flop concettuale” scriveva: “Marco Goldin, una garanzia in quanto mostre blockbuster che fanno il pieno di pubblico. Ma chissà, forse anche una noia! Di nuovo gli impressionisti e i moderni e tutte quelle belle figurine di quadri visti già tante volte. Per carità, il giudizio del pubblico va rispettato, ma forse va anche incuriosito, con qualcosa di nuovo. Dai e dai…chissà.”
Cosa è cambiato da allora? Niente. Una strategia commerciale rimane tale anche a distanza di anni. Più Linea d’Ombra guadagna e più impoverisce la proposta culturale. Un lavoro meramente autoreferenziare, da parte di Marco Goldin, a cominciare dal catalogo, 600 pagine di racconto della propria vita, dei propri interessi, delle proprie passioni, infarcito di un po’ di arte. Un’autobiografia non autorizzata!
Mi stavo chiedendo se e quando scriverne, ancora, anche quest’anno sull’Operazione Goldineye, alla sua terza (e se dio vuole – o l’amministrazione comunale di Vicenza vuole – ultima) comparsata all’interno della splendida Basilica Palladiana.Tutankhamon Caravaggio Van Gogh. Ma preferisco desistere, stavolta. Sarei solo l’ultima di una lunga lista di delatori. (Pure un nutrito gruppo di docenti di un liceo vicentino ha spiegato le motivazioni per le quali non porteranno i loro studenti ad una mostra dal così basso profilo scientifico).
Preferisco scrivere di altro. Di mostre dal senso compiuto, con una curatela strutturata e un progetto critico alle spalle.
Questa guardatevela da soli. E se andrete (lo so che ci andrete, perchè ci sono opere che fanno davvero gola anche a me. Il loro valore è indubbio) provate per una volta ad essere critici, pure voi stessi, nei confronti di ciò che vedrete, e chiedetevi, una volta in fondo, cosa vi ha dato, e cosa vi rimarrà, di una simile esperienza.
Ultima cosa, per favore: almeno non andateci in gruppo. Le visite guidate di 50 minuti sono un’assurdità. Cosa credete di vedere in un tempo così breve, delle cento e passa opere esposte?!
La photogallery qui sotto è di Marco Dal Maso, con me all’inaugurazione per la stampa, che ringrazio molto.