“IL COMPITO ATTUALE DELL’ARTE È DI INTRODURRE CAOS NELL’ORDINE”
Quello che state per vedere è un paradosso. Non è una mostra. È un condensato di storia.
Un’arte, quella dei writers, che fin dai suoi esordi prevedeva come unico scenario l’outside e come supporto qualsiasi cosa fosse il più distante possibile da un supporto tradizionale, fatica a sentirsi a suo agio tra le quattro mura bianche di una galleria…
Ma, anche se non è la stessa cosa, è proprio perché non tutti hanno avuto, o avranno la fortuna di uscire per strada e incontrare pezzi magistrali – sui muri di cinta di fabbriche dismesse, inerpicandosi su cavalcavia o sfidando il pericolo attraversando sottopassaggi ferroviari – che una esposizione simile acquisisce valore. JUICE, raccontando una delle possibili storie, è questo che cerca di fare: riconoscere la street art come un’arte ancora viva, sorprendentemente mutevole, mostrare quale fu il suo punto di partenza e dimostrare come ogni artista, viaggiando su un personalissimo binario, abbia saputo interpretare e piegare quest’arte alle proprie volontà, rendendola più che mai contemporanea.
Uno crede che Schio, o Vicenza, siano troppo piccole per avere a che fare con la storia dell’arte contemporanea, ma si sbaglia di grosso. Le grandi metropoli hanno da invidiargli alcuni pezzi da novanta. Nei 50 mq di questa esposizione ci si trova di fronte a dei lavori che meriterebbero di stare in un museo: cimeli di artisti (writers, graffitari, maghi della bomboletta) che hanno fatto scuola, nell’ambito della street art a livello nazionale e internazionale. SKAH primo fra tutti.
In un colpo d’occhio in mostra si abbracciano 25 anni di evoluzione di un modo di fare arte che spesso ha coinciso con un modo di vivere.
La strada non comportava nessuna limitazione all’espressione artistica. Sperimentazione prima di tutto. In Italia, eco di un fenomeno di portata internazionale, l’aerosol art si espande a partire dalla metà degli anni 80, e continua ad evolversi per gran parte del decennio successivo. Si parte dai muri e si finisce sui vagoni dei treni, sulle fiancate delle metropolitane. Una gallery che ha per tetto il cielo, le pareti sono la città. Ma non erano solo i muri, i luoghi del contendere. Il fenomeno della street art inglobò ogni aspetto del quotidiano. E l’arte, si sa, è artefice di grandi modificazioni del quieto vivere. Si passa dalle t-shirt customizzate alle toppe dipinte da attaccare alle schiene dei giubbetti. E si giunge a decorare unghie finte e gli orologi da taschino!
L’Old School è una Grande Madre. E i suoi figli le furono particolarmente devoti.
Alcuni di questi artisti sono rimasti fedeli al lettering (disegni composti da lettere) nonostante il passare degli anni (come KATO, classe 1978). Le tele qui in mostra (dal 1997 si passa al 2009), così come i modellini di treni dipinti, vera e propria chicca espositiva, sono da leggere come una trasposizione pittorica “indoor” degli interventi realizzati in esterna a colpi di spray nei due decenni trascorsi in giro per Italia e Europa. KATO racconta che i “visitatori della gallery”, un tempo, erano quelli che si fermavano alle stazioni ferroviarie (le writer bench), a guardare i propri lavori sfrecciare sulle carene luccicanti dei vagoni in transito.
Le tele di piccolo formato, in alcuni casi, possiamo intenderle come degli studi, quasi dei bozzetti preparatori. Il cartone “Graffi”, datato 1988, di SKAH (classe 1970 – vero guru della street art: dalle bombolette all’aerografo ai pennelli, mezzi usati indistintamente con una sapienza che ha del leggendario) ha la valenza dei cartoni preparatori degli affreschi di un tempo. Solo che lui non aveva bisogno di riportare “sull’intonaco fresco” il disegno preparatorio. Lui, le linee che doveva disegnare le aveva già tutte pronte in testa.
La street art è uno snodo, un passaggio obbligato. Tra l’arte del passato e il contemporaneo. Come ogni arte che si rispetti anche questa è l’espressione del tempo in cui si compie, è lo specchio della cultura che la vive. Quella del fenomeno (possiamo parlare in realtà di movimento vero e proprio) dei writers, dei b-boys (i ballerini della breakdance), dell’hip-hop e degli MC fu di fatto l’esternalizzazione di un sentire, di un bisogno comune: quello di vivere e di prendere possesso dello spazio urbano e farne il proprio personale territorio. Zone cittadine che diventavano bacheche a cielo aperto, sfide tra bande rivali a suon di pezzi (graffiti), tag (firme) a rivendicare i propri quartieri, contest di improvvisazione da parte degli mc a rappare sui pezzi campionati da dj sempre più stilosi. Perché il soundtrack di questo periodo artistico è tutt’altro che marginale. Fenomeno onnipresente, quello musicale, che gettò le basi per quella che fu l’evoluzione della musica elettronica degli anni a seguire. Da Afrika Bambaataa ai Beastie Boys senza passare per il via.
La grafica sintetica e asciutta di KADEZ (il più giovane della collettiva JUICE, classe 1984) è un omaggio a tutto il panorama musicale che fa da contorno alle opere esposte: la serie “SAMPLER” (realizzata nel 2013) ritrae sapientemente pezzi di mixer, di campionatori, di strumentazioni elettroniche da far impazzire gli intenditori a riconoscerne i modelli.
Una seconda opera, invece, è un vero medley cartaceo, riassuntivo dei maggiori stili e artisti musicali passati sulla scena mondiale negli ultimi 10 anni almeno.
La fusione tra musica e arte visuale è personificata da un altro degli artisti in mostra, KALI (classe 1973). Del periodo della vecchia guardia risale “STREET CULTURE” (1990), nel quale puppet e lettering sono realizzati ad aerografo (strumentazione indoor, molto più tecnica delle bombolette usate per l’esterno), ma per KALI l’evoluzione stilistica, dal writing, prende una piega inconsueta, passando dall’informale ai dipinti più recenti, nei quali ritrae in primissimo piano icone della musica del calibro di Miles Davis o Jimi Hendrix che ne escono stravolti dalla potente carica espressiva.
Possiamo immaginare questa mostra come un percorso a doppio senso, in avanti e indietro nel tempo, uno snodo dicevo. Perché se, da qui, molta parte dell’arte contemporanea è passata, lo sguardo puo’ essere anche rivolto all’indietro, dal momento che è impossibile non leggere, nei lavori esposti, un’appropriazione (più o meno consapevole) di mezzi e gesti propri del linguaggio antiaccademico delle avanguardie artistiche del Novecento. A vedere che le radici sono dure da estirpare…
L’uso del testo scritto (più o meno di senso compiuto) o di singole parole, o sillabe, introdotte nel tessuto delle composizioni pittoriche dei lavori di SPARKY (classe 1981), è retaggio della pratica avviata nei primi del ‘900 dai futuristi; i giochi di parole come in “DO OR DO” di KALI sono di sapore dadaista. Il collage fu abusato fino allo sfinimento a partire dai cubisti (seppure le lingue in mostra, accuratamente ritagliate da SKAH, siano di chiara derivazione porno…). L’uso della linea, del segno forte e deciso escono dal Der Stijl, dall’astrattismo geometrico. L’uso spregiudicato del colore (sia imposto a colpi di spray o a pennellate fortemente materiche, come per i recentissimi “Miles” e “Jimi” di KALI) e antinaturalistico, passa dai fauve all’espressionismo tedesco. Questa modalità di usare il colore fa dei soggetti ritratti dei personaggi senza tempo, a completo appannaggio dell’universo immaginativo.
Il magnetico “Elvis da vecchio” (o autoritratto dell’artista), opera recente di SKAH, proiettata con forza in avanti nel tempo, è il climax di un’evoluzione che l’ha portato a usare, per un ritratto in monocromo, un verde acido che rende il soggetto un ibrido tra un essere futuribile e un fiammingo a infrarossi.
Influenzati da tutto un universo decisamente più onirico e darkeggiante sono i lavori di KOES e KNORE, artisti del circuito bassanese di INFART.
Esserini dall’esistenza travagliata, quelli di KOES, mutanti dall’animale all’umano al vegetale senza soluzione di continuità. Figli illegittimi dei puppet realizzati in outdoor.
Imbevuti di atmosfera degna della danse macabre, ma venati di sottile ironia, sono invece i personaggi che popolano i lavori più recenti di KNORE. Per entrambi personalissime declinazioni del tema di partenza.
Magari, in mezzo a questo vortice, non calzano subito agli occhi i punti di contatto, gli aspetti stilistici che accomunano le diverse personalità artistiche qui ad esporre. Tuttavia, se il backgroud artistico è territorio comune ai più di loro, la spontaneità e l’indipendenza espressiva è indubbia e immediatamente riconoscibile.
Questa mostra getta le basi per la realizzazione di un percorso espositivo di ancor più ampio respiro…