Il 9 luglio di un anno fa cadeva di lunedì. E nella calura estiva, mentre io percorrevo la A4 per raggiungere Forte Marghera, il mio compagno di una vita svuotava casa nostra dalle sue cose.
Negli ultimi mesi alcune cose sono cambiate moltissimo, altre affatto. Comunque credo che quel giorno non avrei potuto fare nient’altro. L’arte, in più di un’occasione, mi ha salvato dalla disperazione.
Un anno fa, dunque, andavo a raggiungere (la mia era una fuga da qualcosa, più che un viaggio verso qualcosa) Andrea Penzo e Cristina Fiore alla prima delle tre conferenze da loro curate nell’ambito del progetto Ecology of Mind, riflessioni sul pensiero filosofico dell’antropologo britannico Gregory Bateson. Prima parte di un lavoro costituito di tre fasi, che avrebbe dato vita, a novembre, ad una collettiva dal titolo Punti di Ancoraggio, e successivamente a un testo (omonimo, e fresco di stampa) riassuntivo delle elaborazioni di un anno di riflessioni e scambi di considerazioni tra loro, in veste di curatori, e i giovani artisti invitati ad interfacciarsi con gli scritti e le teorie batesoniane.
Andrea Penzo e Cristina Fiore sono artisti imprevedibili, scrittori, curatori. Li conosco da poco più di un anno. Ma in realtà avevo avuto un primo contatto con loro (da spettatrice) alcuni anni prima – coincidenza vuole che sempre il Forte fosse scenario dell’incontro – durante l’inaugurazione di una collettiva alla quale loro partecipavano. Ancor prima della performance che li vedeva protagonisti, furono loro stessi a provocare in me la fascinazione.
Nel pomeriggio torrido della vernice del 2010, giorni caldi come sono questi in cui scrivo ora, eravamo tutti in abiti moderatamente eleganti, come l’etichetta – tipicamente italiana – vuole ci si presenti a una inaugurazione. Ma lei, Cristina, era impeccabile. Impossibile non notarla, fasciata in un abito rosso da cocktail, rossetto rosso, e scarpe di vernice dai tacchi vertiginosi – due stiletti in metallo. Scarpe da letto, si chiamano, perchè è impossibile usarle per camminare. Così lei portava in giro per il padiglione espositivo il suo corpo flessuoso facendosi forza su di un paio di stampelle.
Dietro a lei, l’uomo alto in un completo scuro, elegante quanto la donna che accompagnava, cravatta rossa e occhi di un blu profondo, era Andrea. Una rosa tra le mani, seguiva tra la folla Cristina, lasciandole alcuni passi di vantaggio: lo sguardo fermo, sembrava pronto a sorreggerla, nel caso fortuito in cui il caldo, le stampelle o gli stiletti l’avessero fatta desistere dall’incedere…
(photo courtesy of Petrov Ahner)
Giuro che ho impiegato alcuni minuti a comprendere che la loro passeggiata tra le opere in mostra non era da spettatori superbi e ingessati ma si trattava di un’azione performativa. La conferma la ebbi quando, più tardi, vidi stampelle e scarpe riposte con cura a fianco di una targhetta apposta sul muro bianco del padiglione. La didascalia citava “Self Possession. Andrea Penzo e Cristina Fiore.”
Andrea e Cristina nelle loro performance, così come nelle installazioni artistiche, si muovono spesso sul filo del rasoio dell’interpretazione, scavando nell’ambiguità e nella complessità dell’animo umano. Un’indagine permeata di un forte simbolismo che non è mai fine a se stesso, ma funzionale alla comprensione dell’intricato mondo della psiche. Nelle azioni, le gestualità mutuate dal teatro sono stemperate e plasmate da una coscienza propria della progettualità artistica contemporanea.
Passò diverso tempo da questo primo incontro. E io mi dimenticai di loro. I casi fortuiti della vita però – e un uso smodato da parte mia dei social network – fecero sì che, alcuni anni dopo, li ritrovassi, e cominciassi a seguire, in maniera crescente, la loro vicenda artistica, con la cura che riservo ad artisti preziosi e amici cari. Intrecciando legami.
Andrea ha molte storie da raccontare (una volta mi disse che la vita è troppo breve per essere una persona soltanto). Il vetro muranese, soffiato per l’arte contemporanea, e la scrittura di romanzi sono solo due delle molte modalità che egli ha usato negli anni per dare vita all’arte. Cristina porta in sè la conoscenza del fare teatro, e la sua sensibilità ha trovato terreno fertile nel linguaggio non verbale, intrapreso come ambito di studio e punto di partenza per fare, a sua volta, arte. Da alcuni anni creano in sinergia. Ognuno ha portato all’interno del nuovo nucleo la propria esistenza, e la loro grande bravura consiste nel mantenere intatta l’individualità del singolo pur creando assieme un qualcosa di nuovo, che diventi pertanto la summa delle conoscenze di entrambi. Una coppia, la loro, nella vita e nell’arte – spesso i due ambiti si compenetrano, e i ruoli si confondono. Una faccenda dannatamente rischiosa. Ma proprio per questo appassionante.
Dopo Self Possession la prima occasione reale che ebbi di avvicinarmi al loro lavoro di ensemble (Penzo+Fiore) fu attraverso la lettura di alcuni loro brani sull’arte.
A dieci anni mi capitò di assistere per la prima volta ad una sonata di pianoforte a quattro mani. Bisogna distogliere lo sguardo dai prodigi che compiono le dita svelte sulla tastiera, e concentrarsi sul suono che ne esce, ma è esattamente a quello che penso quando leggo un testo scritto da loro. Non si può dire dove finisce l’intervento di uno e inizia quello dell’altro, perchè non è così che funziona! È un flusso continuo e inalterato di parole, armonico, ininterrotto. E in questo modo elegante e sinuoso loro raccontano: ci tengono a ricordare che non si tratta di testi di critica, ma bensì articoli che sono racconti, storie, di arte e di artisti: Roland Wirtz, Giosetta Fioroni, Adalberto Abbate…sono solo alcuni dei profili indagati attraverso la parola scritta.
Confesso che lo stimolo di scrivere, di nutrire questo blog di parole sull’arte, mi è venuto in gran parte dalla lettura di quei loro testi. La loro modalità di trarre in salvo dall’oblio riflessioni e incontri (certamente di ambito artistico, ma come si fa poi a scindere questo dal quotidiano vivere?) mi ha colpito moltissimo, fin dal primo timido approccio.
Tornando a Bateson, i processi cognitivi e le dinamiche della conoscenza di cui egli tratta nel suo celebre Ecology of Mind, furono i punti, per Penzo e Fiore, su cui ancorare la traversata della creazione artistica: non la loro, direttamente, ma bensì quella di quattordici artisti. Durante le tre conferenze aperte al pubblico, organizzate assieme al Circolo Bateson e tenute da Rosalba Conserva, Tiziano Possamai, Silvia Demozzi, l’eterogeneo gruppo di artisti partecipò da uditore. Dopodichè il lavoro divenne individuale. Ogni artista, in quattro mesi, ha spolpato la mole di informazioni ricevute e ha elaborato l’opera che, a novembre, sarebbe andata a comporre il nucleo espositivo di una mostra dall’emblematico titolo Ecology of Mind – Punti di Ancoraggio.
Il 9 novembre Forte Marghera era già completamente avvolto dal freddo e, a tratti, da una leggera nebbiolina. Dopo il breve discorso di apertura tenuto da Cristina, i numerosi ospiti giunti fin lì per la vernice alternarono la visita alla mostra con le soste al banchetto delle caldarroste. Armati di qualcosa di caldo tra le mani si tornava all’interno del padiglione espositivo, ad incontrare gli artisti, ad osservarne i lavori, a leggere i testi che li accompagnavano.
Punti di ancoraggio non è solo il catalogo di una mostra. E’, piuttosto, un compendio di relazioni, umane ed artistiche. In esso Cristina e Andrea hanno pubblicato stralci delle conversazioni avute con gli artisti, che li aggiornavano costantemente sui progressi delle loro opere. Mi ha stupito trovare tanta complessità nelle mail di questi giovani interpreti. Non tanto perchè cercassi della “semplicità” in quello scambio di lettere (Bateson e il suo pensiero non sono di certo giochi da ragazzi) quanto piuttosto perchè so essere, gli artisti, piuttosto restii ad addentrarsi nella descrizione del proprio lavoro, nel motivare le proprie scelte concettuali, ancor prima che stilistiche. Mi sono interrogata spesso sul perchè di tanta ritrosia. Credo sia dovuto al fatto che molti (certamente non tutti) ritengono che “l’opera debba parlare da sola”. Non era questo il caso. Qui tutti, attraverso modalità alquanto singolari in alcuni casi, hanno ritenuto necessario indicare quale fosse il passaggio delle teorie batesoniane sul quale avevano deciso di fondare il proprio operato.
Tra i tanti lavori Clara, figlia del doppio vincolo, mi colpì molto. L’opera, realizzata da Anna Ramasco, rappresentava una giovane donna: un messaggio contraddittorio da lei udito aveva creato nella sua mente uno shock tale da paralizzare la donna, la quale sedeva ora, immobile, sotto una lampadina, sola come lei.
Di nuovo una lampadina come unica compagnia di un’altra opera, Esperienza di schizofrenia per cuffie, di Giacomo Artusi. Installazione sonora spiazzante. La stereofonia esplica perfettamente la contraddizione comunicativa a cui Clara potrebbe essere stata sottoposta. Gli spettatori, sconvolti, faticavano ad arrivare alla fine della traccia audio.
Anche Penzo e Fiore, nel loro percorso artistico, si sono confrontati con l’ambiguità del double bind elaborato da Bateson. L’incongruenza tra il linguaggio verbale e il metacomunicativo può creare un disagio tale, nella psiche umana, da poter sfociare (pare) in malattia. Nelle relazioni interpersonali questo gap comunicativo può comportare fratture profonde…
Cristina e Andrea, per Punti di ancoraggio, non avevano, chiaramente, potuto scegliere i lavori, ma la scelta era ricaduta sugli artisti. Non sapendo fin dall’inizio quale sarebbe stato l’esito del progetto si sono dovuti basare sulla conoscenza del pregresso artistico di questi artisti e sulla fiducia nei confronti di loro e del loro operato.
Essere artisti loro stessi credo li aiuti molto nella pratica della curatela, avvicinandoli maggiormente a quelle che sono le necessità degli artisti che andranno a curare, mettendoli a loro agio, instaurando con essi un rapporto di considerazione e stima reciproca, che ben differisce dall’ambiguo double bind batesoniano.
Prendersi cura degli artisti, permettendo loro di sentirsi nelle condizioni più idonee per creare la propria arte, è una prerogativa, a mio parere, indispensabile della pratica della curatela. La mia personale declinazione della cura mi ha portato a realizzare per loro brani di lana intrecciata, che li proteggesse dal freddo dell’inverno veneziano, e dal gelo che spesso si può insinuare nei rapporti umani. Lana rossa per Cristina, lana nera per Andrea. I colori nei quali li avevo incontrati la prima volta, rappresentativi del loro lavoro e, in parte, del loro essere.
Prendermi cura di loro ancor prima del loro lavoro, in attesa che venga autunno…ma questa è un’altra storia.