Eugène, detto Jeff, era rientrato tardi, la sera prima. Aveva atteso che gli animi in piazza si calmassero, dopo l’ennesimo giorno di sommosse e scontri. Come negli ultimi tre mesi, anche quella notte non riuscì a dormire granchè, il frastuono fuori era infernale e non prometteva nulla di buono. Il popolo, che aveva alzato lungo tutta la piazza enormi barricate costruite alla bell’e meglio, con bancali presi dai mercati e assi di legno recuperate come poteva, si era insediato quasi stabilmente, prima occupando il municipio e, una volta abbandonato quello, dando vita ad una sorta di enorme accampamento variopinto sul selciato.
Nelle ultime ore di quel giorno il numero di uomini e donne in piazza era aumentato esponenzialmente, quando si muoveva pareva si scuotesse un’onda anomala. Lo si vedeva bene dal tetto del palazzo principale della piazza, nonostante i fuochi accesi qua e là impedissero talvolta una visione chiara di ciò che stava succedendo. Il fumo denso che scaturiva dagli incendi era un mezzo rudimentale ma efficace, usato dai manifestanti per impedire ai gendarmi di avvicinarsi a loro e arrestarli. La violenza era giunta al limite: si sparava per strada, il numero di morti era cresciuto nell’ultima settimana. A nessuno venivano risparmiati i colpi, né lame di baionette nello stomaco, né manganellate in faccia. Ripristinare l’ordine, ormai era diventata una priorità. Ma a che prezzo?
La lotta dell’intera cittadinanza contro la politica filoconservatrice del capo di governo era giunta al limite. Ormai non si poteva più tornare indietro.
Questa l’opera che egli fece, ritraendo gli avvenimenti di quei giorni drammatici.