Chirurgo della luce

Al momento di andarsene, Andrea Rosset, primo ospite del Take Care Corner ha detto che questa chiacchierata di oltre un’ora e mezza avremmo potuto farla a casa. Ma, assieme a me, ha convenuto che non sarebbe stato lo stesso. Stavolta non gli è bastato, come fa di solito, scendere due rampe di scale, aprire il portoncino d’ingresso, uscire in strada, fare circa sette passi sotto la linea delle mie finestre e suonare il campanello, per venirmi a raccontare del suo lavoro artistico. La scelta stavolta ricadeva nell’accettare un invito che prevedeva un coinvolgimento diverso. Si trattava, ossia, di attivare un discorso “ravvicinato” sull’arte (gli interlocutori eravamo noi due) ma potenzialmente sotto gli occhi di tutti. L’idea del Take Care Corner è stata quella di traslare in un luogo affollato, con un pubblico vario e di passaggio com’è quello di una fiera, una modalità di interazione che mantenesse idealmente una dimensione quasi intima, funzionale all’ascolto. Prendendomi cura dell’artista (in questo caso prestando ascolto, attenzione, alle parole dell’artista sul suo lavoro) mi prendo cura dell’arte.

“Chi è, la donna della foto?”. E che importanza ha? La prima domanda è mia, la seconda è il condensato della risposta di Andrea. Per parlare del ventennale rapporto con la fotografia di Andrea ho scelto di cominciare lasciando fare a lui stesso delle considerazioni su un suo progetto in particolare, Restrain. E per farlo ha portato con sé una piccola stampa, trenta centimetri per quaranta nella quale è rappresentato il volto di una donna piegato leggermente da un lato, lo sguardo basso sembra seguire il flusso dei pensieri; le spalle che appaiono nella foto sono nude, i capelli escono da una macchia d’oscurità, in cui tutta la sagoma è immersa. E’ difficile, guardando un ritratto, non porsi interrogativi sull’identità del soggetto, come se un’informazione biografica consegnasse un valore aggiuntivo al fine della contemplazione dell’opera. Ma non è questo il punto, non per Andrea.
La ricerca in merito alla fotografia contemporanea di Andrea si compie sul livello del linguaggio: attraverso un lavoro lungo e meticoloso, da tempo lui opera per trovare una modalità esecutiva che conceda al fotografo di allontanarsi sempre più con migliori esiti, dal “predominio dell’occhio”. Sembra un paradosso, eppure nel distaccarsi dall’operazione meccanica che il mezzo implica egli ha la possibilità di dedicarsi con maggiore dedizione alla “ricerca della fotografia”.

Gli capita, talvolta, di sentirsi fare delle domande poco “pertinenti”, ma Andrea le accetta di buon grado, così come le considerazioni sull’interpretazione dei suoi lavori. Ma se l’interpretazione dell’opera appare troppo stringente e univoca, se è troppo diversa da quella che si aspettava, allora significa che il lavoro presenta ancora qualche sbavatura. E allora bisogna ricominciare…La ricerca non è mai conclusa.
Restrain non è un lavoro concluso. E’ stato pensato piuttosto come una modalità di lavoro, applicabile idealmente a qualsiasi soggetto. Andrea lo intende come un modello attraverso il quale ritrarre l’umanità: la compagine di scatti realizzati finora si può intendere come un campionamento dell’umanità stessa. Ecco perché ha un’importanza relativa sapere chi sia la persona ritratta.

Gli ho chiesto che cosa cerca, in un ritratto: la sua risposta è stata piuttosto articolata. Prima di cominciare a fare ritratti, Andrea credeva di poter, attraverso i propri scatti, interpretare gli altri. Ma, una volta iniziato questo percorso, si è reso conto che questo non era possibile: l’altro non si conosce attraverso l’arte, piuttosto l’arte serve per comprendere un processo di esperienze autoconclusive, con un’altra persona. O meglio, può avvenire, incidentalmente, una forma di conoscenza, se si persegue un fine (e una fine), mentre l’esperienza che non si prefigge la conoscenza è circolare, non è conclusa. Pertanto, dal momento che non esiste un’unica vera essenza ma tante, mutevoli, contraddittorie, non si può avere la pretesa di dare un’unica rappresentazione ad un’identità.

Restrain è un lavoro in serie, ma ogni scatto è leggibile tuttavia come una storia a sé stante: è un resoconto della traccia del tempo.
La meticolosità, l’attenzione maniacale che Andrea mette in campo durante tutta l’operazione fotografica mi ha fatto associare il suo lavoro a quello di un chirurgo, il quale non prescindendo da un elevato livello di concentrazione, astrae l’aspetto emozionale da quella che è la pratica della sua professione. Quando glielo feci notare mi disse che, in parte, ciò era vero: il lavoro di studio, che per lui è la parte più rilevante del suo operato, è paragonabile a quello chirurgico. Nello studio fotografico egli agisce, nella fase preparatoria dello scatto, come se si stesse accingendo a compiere un’operazione chirurgica: una volta pronti tutti gli strumenti, delegata all’apparecchio fotografico l’azione meccanica dello scatto, Andrea si sente libero di creare, libero di accogliere l’immagine che uscirà.
A partire dalla fine degli anni Sessanta è avvenuto un cambiamento radicale nella concezione del lavoro nello studio fotografico: se prima l’attività al chiuso dello studio era intesa come “fredda”, contrapposta all’estetica “calda” del reportage – strettamente correlato alla vitalità dell’esterno- dal momento in cui la performance art è entrata nello studio si è scardinato quel rigore che legava, in passato, l’attività del fotografo allo studio, e si è dato sfogo alle più inaspettate sperimentazioni e ibridazioni.
A questo fa riferimento Andrea quando parla di studio come “spazio embrionale” (una delle donne ritratte l’ha definito così): il set di Restrain, in primis, viene percepito come un ambiente caldo, accogliente, all’interno del quale vi è quasi un silenzio assoluto, e nonostante ciò fotografo e soggetto si espongono molto, lo scambio tra i due è molto profondo.

  • RESTRAIN
  • RESTRAIN
  • RESTRAIN

Andrea ha dipinto fino all’età di vent’anni, poi gradualmente si è avvicinato al video e alla fotografia: ma in Restrain ritorna idealmente alla pittura, mutuando da essa la gestualità. I corpi, stesi al buio sotto l’obiettivo della macchina, si fanno accarezzare dal sottile fascio di luce a incandescenza che Andrea calibra su di loro, per farli emergere dall’oscurità nella quale sono immersi. Il risultato è visibile solo a scatto concluso, il fotografo stesso non può sapere con esattezza l’esito del suo passaggio luminoso finché lo compie, pertanto il risultato è graduale, e ottenuto attraverso un affinamento della tecnica e un’acquisizione di consapevolezza sempre maggiore su quali parti togliere dall’oscurità. Tutto il procedimento acquista per Andrea un valore coreutico, simile al movimento nella danza, nella quale il corpo smette di compiere dei movimenti pilotati coscientemente, ma si abbandona alla ripetitività dell’esperienza, di un canone ormai acquisito.
La posa lunga, il ritmo di luce e buio che accompagna l’introspezione e la veglia, contribuiscono ad instaurare una connessione, tra fotografo e fotografato, di intimità forte: l’empatia non può contare sullo sguardo reciproco (il contatto visivo nell’oscurità dello studio manca quasi totalmente) ma si avvale della vicinanza. L’aspetto che più colpisce, di queste immagini, è la presenza fisica all’interno dello scatto. Andrea, attraverso questo procedimento fotografico, e di pittura luminosa dei corpi, rifiuta la facile tentazione di rendere un ritratto psicologico attraverso l’evanescenza del soggetto. Qui invece è carne e materia, che non sfugge all’apertura dell’obiettivo, ma testimonia la presenza, in quel preciso istante, in quel preciso luogo, della propria essenza fisica, in tutta la sua veridicità, compreso quell’effetto di “micromosso” dell’immagine, che riporta alla vitalità del soggetto ritratto. Non c’è interesse ad estremizzare particolari come le rughe, gli occhi arrossati dal pianto commosso, la pelle smagliata, i capelli scomposti. Ma tutti questi elementi fanno parte della posa nella stessa misura in cui ne fa parte il soggetto fotografato. Ancora una volta: l’immagine che ne esce non è una sintesi della persona fotografata, ma è una registrazione dei dieci, quindici secondi all’interno dei quali la persona è cambiata, così come il gesto è cambiato, nel restituirla attraverso la luce. E’ l’aspetto riassuntivo, e conclusivo, di una sorta di performance privata, che comporta una fatica fisica, durante le molte sessioni di lavoro, e una tensione costante.

Prima di lasciare la poltrona del Corner c’è stato il tempo per parlare di un altro progetto in fieri: Enduring. Anche questo lavoro, per Andrea, è stato un tentativo di rimettere l’occhio al proprio posto, in questa sua battaglia contro la sopravvalutazione del senso della vista. Lui non condivide la visione metafisica che intende l’occhio “specchio dell’anima e indagatore di coscienza”, ed è per questo che si sforza di creare fotografie in cui lo sguardo è “solo” uno dei sensi coinvolti nel processo elaborativo.
Andrea in Enduring (non per nulla ha scelto come titolo per questo lavoro un termine che indica uno stato di “sopportazione” paziente, durevole) rinuncia ad un’inquadratura rigida, a favore di un’apertura del campo visivo, all’interno del quale non è più lui a decidere ciò che avviene ma lo decide il protagonista dello scatto. “Se non puoi più inquadrare, a cosa ti dedichi?”. La questione della responsabilizzazione dell’autore preme molto ad Andrea: la ricerca, muovendosi su livelli inconsueti, pone il fotografo “nudo”, anch’esso, di fronte al proprio lavoro, come sono nudi i soggetti di fronte all’occhio meccanico della macchina.
Enduring è composta di ritratti a figura quasi intera. Paradossalmente, qui, la nudità – prevalente in questi scatti – rende una vicinanza ancora maggiore tra fotografato e osservatore, di quanto non lo facesse il primissimo piano di Restrain. Di nuovo Andrea delega lo scatto ad un automatismo, mentre è la presenza fisica, all’interno del set, di fotografo e soggetto fotografato, a creare l’opera.
La scelta dei soggetti, in Restrain così come in Enduring, è ricaduta su persone vicine all’artista, ma non intime: l’obiettivo non è mai puntato su qualcuno con cui Andrea abbia un legame stretto, familiare. La decisione rispetta un vincolo di prossimità, e rifugge da chi si propone a lui per essere ritratto. Questo perché, nei suoi lavori, l’aspetto della “presenza” del soggetto sulla scena, è uno dei nodi cruciali della ricerca. La scelta dei soggetti comporta l’esclusione di coloro i quali appaiono già come “immagini fatte”, ostentando una presenza, quando invece è necessaria una grande capacità di rifuggire da un ruolo, abbandonandosi ad “essere” solamente.

ENDURING

ENDURING

A conclusione della lunga chiacchierata Andrea ha accennato ad un nuovo progetto, al quale ha preso a lavorare da qualche tempo, nel quale  i temi della presenza e dell’assenza ritornano a essere stimoli per la ricerca di linguaggi inediti. Ma questo sarà argomento di una nuova conversazione…

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