Testo al progetto fotografico di Andrea Garzotto “Ritratto di Signora”
RITRATTO DI SIGNORA La perfezione della bellezza si compie nella misura. In “Ritratto di Signora” lo sguardo di un uomo filtra l’intimità delle donne ritratte e le consegna al nostro sguardo in una visione d’insieme, quasi senza soluzione di continuità. Ritmando la circolarità esistenziale, mischiando le carte di istanti di vita e invertendone l’ordine, Andrea Garzotto fa sì che l’equilibrio non si compia tanto nella struttura compositiva delle immagini che lo compongono, quanto nella costante tensione emotiva. Ogni ritratto va oltre il il ritratto, ogni donna non è solo l’immagine di sé, ma travalica il significato di ritratto diventando espressione di una stagione, a scandire le età. Maturità, infanzia, vecchiaia, giovinezza. Non si susseguono più con un’ostinazione cronologica, ma rompono la linearità a favore di una lettura più ampia, rispecchiando le complessità del femminile. Attraverso il ritornare, il perpetrarsi di gesti, riti, movenze, segni, che smettono di appartenere ad un singolo momento, ad un singolo individuo, per diventare parte integrante del Tutto. Dodici ritratti a formare un quadro completo. I toni di questi “racconti a un’immagine” sono quelli delicati e introspettivi; un approccio intimo e paziente avvicina l’autore alle donne ritratte, sì da entrare silenziosamente in un universo privato, che si lascia scoprire svelando per ognuna una personale inclinazione. Ogni Donna prende possesso dello spazio in cui è ritratta, che gli è specchio. Instaura a proprio modo il rapporto con l’obiettivo fotografico, talvolta lasciando intuire un’insicurezza, una timidezza che la portano a schermarsi il volto con le mani; talvolta esprimendo una forza e una tenacia che traspare fin dallo sguardo. La veridicitá del ritratto, la posa non artefatta… La scelta curatoriale di presentare gli scatti in grandi dimensioni mira all’intento di rappresentare queste “donne del quotidiano” quali “nuove icone della naturalità”, o anti-icone di un femminile contemporaneo stereotipato.
Un condensed di questo articolo è apparso su Artribune il 5.09.2014
Immaginate di avere davanti a voi il genio della lampada: sareste in grado di esprimere, in una sola volta, i vostri desideri? E altrettanto pronti nel vederveli comparire di fronte?
Rosengarten Festa quest’anno fa le veci del ‘genio’, e farà apparire, davanti agli occhi di una Bolzano curiosa, i desideri e le istanze di una cittadinanza attiva e propositiva.
Per APPARIZIONI | ERSCHEINUNGEN Franzmagazine, promotore del progetto, ha chiamato all’appello le realtà creative che gravitano nella zona ibrida (un melting pot di attività diverse, che portano avanti valori condivisi) quale è Rosengarten, chiedendo loro di dialogare con chi quell’angolo di città lo vive quotidianamente: le necessità e i (bi)sogni sono stati messi a nudo e, su quelli, una compagine di artisti e architetti invitanti alla Residency di maggio, ha lavorato a creare delle “visioni di mondi im-possibili”, a partire dai cortili nascosti dei condomini, gli spazi sfitti che ritmano le strade, i luoghi di confine che delimitano, spesso solo idealmente, una zona da un’altra.
Queste le “menti pensanti del collettivo estemporaneo: Roberto Tubaro, architetto (Bolzano), Carla Cardinaletti, artista (Bolzano), Lisa Castellani, artista (Vicenza), Luca Bertoldi, artista e ricercatore (Trento), Claudia Raisi, architetto (Milano), Campomarzio, collettivo di architettura e progettazione (Trento), Scaf.Scaf, artista (Bolzano/Albania). A guidare e indirizzare i lavori, Eleonora Odorizzi, architetto del collettivo trentino minove.
Ed ecco quindi l’apparizione: all’imbrunire, sui palazzi di Rosengarten, compariranno come in un gigantesco caleidoscopio, immagini che proporranno una rilettura di questi contesti urbani sopiti, per stimolare una riflessione critica sul “ciò che potrebbe essere”, ma ancora non è.
Anche altre apparizioni popoleranno via Latemar che domani ospiterà la Festa dalle 18 fino alle 24: a fianco di attività satellite, 5 I.point mostreranno al pubblico altrettanti progetti, in stato embrionale, nati proprio ascoltando le necessità del quartiere, primo fra tutti il bisogno di sopperire alla mancanza di uno spazio pubblico di aggregazione e socializzazione: allora ecco spuntare PLAYGROUND ROSENGARTEN, un parcogiochi pop-up, facile da aprire e spostare (Scaf.Scaf); BACKYARD PARTY KIT, un kit per realizzare la propria festa di condominio (D. Klotz); ROSENFINDER, un portale web che identifichi le realtà (commerciali, aziendali) del quartiere in base alle risorse che offrono (pixxelfactory); LISTENING_SOUND_LEARNING, un cinema “sensibile” di quartiere, che aggreghi udenti e non udenti (Elternverband hörgeschädigter Kinder); YOUR PUBLIC PLACE, un’azione partecipativa, da realizzare il 18 settembre, per contrastare l’assenza di panchine o sedute pubbliche, alla quale la cittadinanza è invitata (W13 designkultur).
Band e dj ritmeranno Rosengarten Festa per tutta la durata dell’evento.
Un grande in bocca al lupo a Franzmagazine, che lì so da giorni a naso in sù a scrutare le nubi, alla ricerca di un po’ di sole!
Anche se non è il primo giorno dell’anno siamo alla viglilia di settembre, e quando arriva settembre tutto ricomincia di nuovo. Pertanto questa dichiarazione d’intenti è una sorta di piccola lista dei buoni propositi, incentivo al fare più che al disfare.
Olivares cut è pronta a partire nuovamente. Obrist sostiene che sia impensabile fare il curatore se non si è continuamente in viaggio, che non significa però soltanto essere in perpetuo movimento. Il viaggio implica l’incontro, lo spostamento verso. Verso qualcuno e qualcosa.
Pertanto ecco, se dobbiamo scegliere madri e padri spirituali dei quali seguire le orme, direi che HUO in questo momento ben identifica l’uomo del quale qualunque aspirante curatore dovrebbe seguirne le tracce. Lui che ha fatto del rapporto con gli artisti un elemento fondante del suo operato, attraverso uno scambio continuo, fatto di parole (scritte, dette, segnate, registrate, ripetute) e di azioni condivise, ispira e accresce la mia voglia di intessere nuove relazioni, di chiedere, stimolare interesse, rispondere a domande e dar vita a nuovi progetti.
Per cui ecco, preparo armi e bagagli e riparto, e stavolta con una meta e un intento preciso. La meta sarà la fucina fervente di Dolomiti Contemporanee, che sta diventando un luogo accogliente dei miei sempre più frequenti pellegrinaggi artistici. Prima verso Casso a conoscere gli artisti in residenza e in seconda battuta a Borca di Cadore, direzione Ex Villaggio Eni, nuovissimo e scintillante cantiere DC. L’intento è quello di cominciare a dar vita al progetto TULPENMANIE, attraverso una serie di interviste e riflessioni sul tema che, come ormai saprete, tratterò ad ArtVerona Fiera ad ottobre ospite della sezione Independents: il valore (aggiunto) dell’arte.
Detto questo, finisco di preparare la valigia e via, si parte. Da ora in poi gli aggiornamenti si faranno sempre più numerosi e costanti.
A breve vi racconterò la storia di un cane a sei zampe che si morde la coda…
(Foto in evidenza: aulamagna della Colonia di Borca, Ex Villaggio Eni. Archivio Dolomiti Contemporanee)
Manuel Pablo Pace di spagnolo ha il nome e l’animo, l’origine morale. Spagna che non è terra natia ma è stata per lungo tempo d’adozione, e che ancora, ciclicamente, lo richiama a sé. L’Italia invece é terra di formazione prima (l’accademia di belle arti veneziana, a seguire gli studi di sociologia), di militanza poi (tra i capofila della storica rassegna bassanese Infart, sulle orme della street art dei “beautiful loser”).
Le opere che compongono la costante ricerca di Pace non sono facilmente inquadrabili, componendosi di una pittura che rifugge dall’iperrealismo alla Hopper, abbraccia i toni vintage dei manifesti pubblicitari anni Cinquanta, nelle forme ancor prima che nelle tinte, e si nutre dell’ampiezza dei segni onirici. I ritratti, fedeli, calano i soggetti in ambientazioni surreali, in un passato imprecisato, componendo scene di genere dal gap temporale spiazzante.
In “Autoportrait”, il cameo che indossa la ragazza sul divano in stile (una fanciulla già adulta) è lo stratagemma che usa Pace per ritrarre se stesso, divenedo la chiave di volta alla lettura del ritratto principale, che il titolo porta in secondo piano.
Cosí come nella scena agreste di “Angelica e Medoro”, nel quale il nome dell’opera svela il contenuto ma spiazza nella comprensione. Ambientata nelle colline bassanesi, la tela ha per protagonista una coppia di coetanei dell’artista che veste i panni da “fin de siecle” e sbilancia la contemporaneitá dei soggetti in un doppio livello temporale, quello del racconto ariostesco e quello “in costume”, tardo ottocentesco.
Pace usa la fotografia come punto di partenza nella composizione dei dipinti, o piuttosto attivatore di suggestioni, funzionale a comporre la struttura del lavoro che andrà a sviluppare in seconda battuta (olio, tempera, acrilico, acquerello, matita. Media scelti di volta in volta, in base alle necessità) sovrapponendo differenti tagli, differenti visioni.
Immagine in evidenza: “Angelica e Medoro”, olio su tela, 2012
Testo al progetto fotografico di Andrea Garzotto “Let’s Folk”
Cos’è il folklore se non l’iconografia delle radici, la trasposizione sul piano reale di storie, leggende, tramandate a voce, spinte avanti a memoria, impregnate di una ritualitá atavica che non sentiamo di appartenere ma che, inconsciamente, perpetriamo?
La periferia è il luogo del folklore: la tradizione è decentrata, fuori dai riflettori.
Lontano dalle masse, è dentro al popolo.
Le fiere di paese ricalcano ovunque lo stesso copione, con i loro tendoni lisi, le tavolate in serie, l’odore della carne al fuoco.
Il rituale collettivo si compie sulle piste da ballo; la musica esce forte dagli altoparlanti, e si riversa sgraziata sulle coppie che interpretano se stesse.
Let’s Folk: non “fenomeni da baraccone”, ma uomini e donne pregni di “umanità”.
L’intento documentaristico scioglie la propria rigiditá al fuoco di un romanticismo decadente, facendo fuoriuscire dal grottesco -di paesaggi, soggetti e scene – una bellezza scarnificata, lievemente sofferente, intensa.
Da Let’s Folk traspare una malinconia inconscia, non conosciuta per esperienza diretta, ma radicata sì profondamente (nello spettatore) da identificarsi con il background emozionale di chi guarda.