Quando si inizia con l’allestimento di una nuova mostra si devono tenere conto di parecchie variabili: in primis le dimensioni dello spazio, poi la disposizione dello stesso; bisogna prestare attenzione a quello che sarà il percorso espositivo, dov’è situata l’entrata e se quella sarà coincidente con l’uscita; se c’è bisogno di utilizzare segnali o escamotage più sottili per far sì che il visitatore vada esattamente dove tu vuoi che vada, o prendere possesso della consapevolezza che girerà comunque in modo sconclusionato per la mostra anche se ti sarai premurato di marcare il territorio con scie luminose lungo tutto il cammino. Fare caso all’illuminazione che dovrà essere utilizzata, che sia della giusta intensità, alla giusta distanza, che non dia fastidio allo spettatore e che non provochi danni col calore a quelli che sono gli “oggetti del contendere”, ai quali dedicherai maggiormente la tua attenzione: le opere.
Tutte le cose appena dette non avrebbero alcun senso se non fossero messe in stretta relazione con le opere e viceversa: è il “loro” rapporto con lo spazio che ci deve preoccupare, il “loro” rapporto con lo spettatore che ci costringe a riflettere sulla disposizione di ogni singolo pezzo nello spazio.
Io, per cominciare, uso questo metodo: scelgo i due, tre (improbabile averne di più, a volte) “masterpieces” e, studiato accuratamente lo spazio espositivo e tutti gli annessi e connessi, trovo loro la giusta dimora. Dopodichè avviene una sorta di giustapposizione, come se l’allestimento fosse la versione artistica del tetris, di tutti gli altri lavori di cui dispongo.
Ma cosa succede quando, a mostra avviata, ad inaugurazione raffreddata, ben lungi dall’essere vicini alla data del finissage, improvvisamente uno di questi pezzi forti, pilastri del lavoro curatoriale (per un motivo che possiamo riassumere con la famosa formula “cause di forza maggiore”) deve essere rimosso? Decade il valore di un intero lavoro? Si dovrebbe rivedere l’intero progetto espositivo? Si tenta di mascherare il buco con qualcosa di ripiego o piuttosto si lascia che il vuoto acquisisca il valore di antisimulacro dell’opera stessa?
I Fratelli Calgaro, con l’Arte sporca, mi suggeriscono una delle soluzioni possibili. A mio parere l’unica che, a questo punto, abbia veramente un senso.
L’arte sporca, Fratelli Calgaro
La sensazione è quella di camminare in un paesaggio innevato, quando si è completamente circondati da un manto bianco e i rumori vengono magicamente attutiti. Solo che in questo caso la neve è sostituita da 7500 mq di moquette stampata con i motivi dei tappeti orientali. Intere stanze di Palazzo Grassi, l’atrio dell’ingresso, la grande scalinata, le colonne, il primo e il secondo piano: un’unica immensa distesa di soffice pelo. Alla terza sala ho già completamente perso l’orientamento, e ho una gran voglia di stendermi, e di togliermi le scarpe e percorrere scalza questo labirinto.
E’ inconsueto per Palazzo Grassi, da quando re Pinault ha insediato lì la sua scintillante corte, ospitare l’opera di un unico artista, ma questo “solo show” necessitava di tutto lo spazio a disposizione, per rendere l’idea di estensione della materia sulla superficie. E’ la dilatazione di un concetto (la sovrapposizione dell’opera d’arte con l’ambiente in cui questa si insedia) portato quasi all’esasperazione in questa “site specific” dal suo autore, il meranese Rudolf Stingel.