Alcuni lo amano, altri lo odiano. La sua critica schietta al mondo dell’arte buca lo schermo e infastidisce certe coscienze. É Luca Rossi.
In previsione di TULPENMANIE mi sono seduta accanto a lui sul divano virtuale del web e ho chiesto il suo parere sul VALORE DELL’ARTE. Ecco l’intervista che ne è uscita.
Petra Cason: Caro Luca, finalmente eccoci a discutere di “valore dell’arte”. So che è un tema caldo, che ti sta particolarmente a cuore. Ho preferito coinvolgerti utilizzando la modalità che ti è più congeniale, ossia discutendo con te “faccia fronte al monitor”, anziché seduti comodamente in poltrona a Verona. In quale veste prendi parte al dibattito (chi è Luca Rossi, perchè Luca Rossi)?
Luca Rossi: Il problema non è partecipare al dibattito dal vivo, ci mancherebbe, ma chiedersi quanto questo sia utile rispetto ad una conversazione che chiunque può leggere su internet (questa). Mi chiedo se abbia senso parlare ai soliti addetti ai lavori, che parlano parlano e poi non cambiano mai il loro approccio. Mi chiedo se sia (ancora) giusto partecipare gratuitamente a questi talk. Non per essere venale ma per pretendere un certo grado di professionalità (che non significa professionismo). Partecipo come Luca Rossi, e non sono certo anonimo come molti credono. In Italia, come in una grande famiglia italiana un po’ mafiosetta, gli addetti ai lavori pretendono di conoscersi tutti; devono conoscersi tutti per intessere al meglio la maglia delle pubbliche relazioni, ovvero l’unica difesa e l’unico piedistallo per la propria attività. Io invece vorrei comportarmi in modo sincero anche a costo di essere antipatico. Solo così rimarranno le persone più oneste, leali e sinceramente interessate.
PC: TULPENMANIE è il nome che ho dato al progetto che quest’anno porto nella sezione Independents di Artverona, accogliendo il tema affrontato quest’anno, quello della bolla speculativa, che ha investito senza dubbio anche l’arte contemporanea. Che rumore ha fatto, questa bolla, esplodendo?
LR: La bolla non ha fatto alcun rumore per tutti coloro che cercano ancora di perpetuare modelli, rituali e atteggiamenti che non funzionano più. E quindi la stragrande maggioranza del pubblico dell’arte contemporanea, che in Italia coincide impietosamente con gli addetti ai lavori. Scommetto che nella tua platea ci sono solo addetti ai lavori, collezionisti, loro amici e qualche persona dei settori limitrofi (design, moda, architettura, cinema, ecc).
PC: Quando è esplosa realmente secondo te e chi credi sia stato maggiormente colpito?
LR: La bolla è scoppiata nel 2009, non a caso l’anno in cui è nato del tutto spontaneamente e naturalmente il mio blog. I più colpiti sono stati i collezionisti. Nel senso che tra fine anni 90 e il 2009 sono state vendute opere bidone, ossia opere caricate arbitrariamente di valore. Nel 2010 parlai di un caso p-ART-malat. Proprio come per la Parmalat a fine anni 90, poche persone decisero il valore dei titoli arbitrariamente.
Proprio per questo bisogna oggi avere il coraggio di ripartire da zero ricercando ragioni e motivazioni dell’opera. Ed è quello che sto cercando di fare su più fronti: linguaggio, critica e un rapporto del tutto inedito con il pubblico.
PC: Credi che la crisi economica, andando a colpire nel vivo l’esasperato meccanismo di produzione di arte (troppi soldi foraggiavano troppi artisti mediocri) abbia esercitato realmente un’azione di scrematura?
LR: Sicuramente, anche se i sopravvissuti e i nuovi astri nascenti tentano oggi di perpetuare gli stessi modelli fallimentari. Possono fare questo perché non esiste un pubblico vero, e quindi un’opinione pubblica che abbia strumenti e interesse per l’arte contemporanea. Quindi gli addetti ai lavori, come oligarchi di un regime in decadenza, si ostinano a compiacersi a vicenda e a rimanere su una nave che sta affondando lentamente (musei che chiudono, pubblico distante, bassissima qualità delle opere in Italia come all’estero, ecc.). Io credo che invece l’arte contemporanea possa avere un grande potenziale.
PC: Ma i voti che tu hai dato ai sopravvissuti (lo sono, quelli di Italian Area?!) sono delle pagelle di molti “scolari somari”. Stai dando i voti a loro in quanto artisti o alla loro arte (sempre che tu non sia convinto che le due cose coincidano)?
LR: I miei voti sono diretti alla loro arte in relazione al contesto, alla storia e alle loro intenzioni. Ho preso una selezione significativa di Italian Area come pretesto esaustivo. Ma questi artisti sono soprattutto il risultato di un sistema italia che negli ultimi 20 anni non ha funzionato come doveva. Sono le vittime spesso inconsapevoli. La cosa significativa è stata che nessuno ha reagito pubblicamente ad uno scandalo di valore (i miei voti bassi), rispetto a quello che dovrebbe essere il vero patrimonio dell’arte italiana (le opere e gli artisti); allo stesso tempo ben due critici (uno giovane e uno senior) si sono indignati per il compenso alto di Germano Celant, e quindi uno scandalo ben meno grave del mio. Questa cosa è significativa per capire quanto opere e artisti siano marginali e poco rilevanti. Anche non riconoscendo autorevolezza alla mia critica, bisognerebbe prenderla sul serio dal momento che molti operatori autorevoli seguono e supportano il mio lavoro.
PC: Di quale malattia soffre l’arte contemporanea? – Io credo sia bulimia (di riti, di visibilità, di mostre, di fiere, di chiacchiere) – (è guaribile? Posologia del medicinale?)
LR: La malattia è l’ignoranza, nel senso di ignorare il reale potenziale dell’arte oggi. L’arte presiede e segue ogni altro ambito e disciplina umana. La cura sarebbe una nuova formazione per il pubblico, gli artisti e gli addetti ai lavori. È una cura che non si risolve con un workshop ma con un approccio continuativo e costante.
PC: Quando parli di valore dell’arte parli di valore in termini assoluti?
LR: Il valore è relativo a opera-contesto-intenzioni. Tale valore tende, senza mai raggiungerla, ad un’oggettività. L’argomentazione critica permette di avvicinarsi a questa oggettività, senza mai raggiungerla fortunatamente.
PC: L’integrità e l’autenticità dell’opera d’arte sono valori assoluti?
LR: Sono valori relativi, ma molto importanti.
PC: Chi stabilisce i criteri di valutazione? La critica, il pubblico, il mercato…
LR: I criteri sono molto superficiali e banali. Proprio per questo il valore dell’opera e dell’arte contemporanea, vivono una forte crisi. Una critica forte, un mercato motivato, un pubblico vero, interessato ed appassionato, potrebbero proteggere ed esaltare i valori in campo. Oggi viviamo l’anonimato della critica (non certo il mio!), un mercato immobilizzato (a parte valori sicuri di altissima fascia), un pubblico (almeno in Italia) disinteressato, lontano e abbandonato.
PC: Mi interessa capire se l’arte contemporanea è (ancora) specchio del proprio tempo: quanto risente, in sé, delle dinamiche sociali, e cosa, a sua volta, è in grado di restituire? Possiamo considerare, questo, valore?
LR: L’arte è sempre specchio del proprio tempo, ma non credo proprio che questo sia un valore se manca la consapevolezza. Ecco, alle parole novità e innovazione bisognerebbe sostituire il termine consapevolezza. Se un giovane inizia a vendere computer vintage davanti a Media World, lo deve fare con consapevolezza, diversamente si tratta di una cosa significativa, ma che, senza consapevolezza, ha un valore molto basso. Il Padiglione Italia curato da Vittorio Sgarbi nel 2011, era molto significativo, ma non credo fosse molto consapevole. Sembrava di entrare in una grande magazzino, con tanta arte accatastata e dozzinale. Era lo specchio di quello che stava succedendo ed era successo, anche nelle gallerie cool milanesi, come se portassimo in una stanza tutta l’arte transitata in una galleria in un certo periodo di tempo. Quel Padiglione dimostrava l’incapacità da parte di critica e pubblico di fare le differenze tra le cose, e quindi si tende ad imbarcare di tutto. Peccato che Sgarbi non fosse consapevole di tutto questo.
(7 ottobre 2014)
Qual è il processo per modificare (e possibilmente migliorare) lo stato delle cose? Ipotizziamo tre indispensabili fasi: la prima è la presa di coscienza del problema, la seconda è lo studio della strategia che comporti un superamento del problema, e la terza e ultima è l’applicazione della teoria alla pratica, ossia la fase esecutiva, quella che comporta un cambiamento reale. Sto sintetizzando in maniera esasperata. Ma credo che, in questo semplice schema, manchi un altrettanto semplice quanto necessario elemento: il confronto. Questo preambolo forse serve più a me, ora, che a voi ai quali vorrei spiegare il motivo per cui sarò (anche) quest’anno ad ArtVerona e che cosa, nello specifico, andrò a fare. Ma sono certa dell’utilità di questo elemento nel sistema. Il confronto, il dialogo, lo sforzo di rapportarsi con qualcun altro, che porti la riflessione che stiamo compiendo fuori dalla nostra mente, oltre le elucubrazioni che spesso si inceppano in loop, è un fattore determinante per lo sblocco di un “meccanismo difettoso”. Independents ha scelto tra le molte domande che gli sono state presentate 25 realtà indipendenti e creative che presenteranno “un progetto che ragioni sulla situazione italiana e che offra al visitatore di ArtVerona uno sguardo altro, uno sguardo nuovo, indipendente, sulla situazione nella quali tutti viviamo.” Io, ad ArtVerona, vado a portare una rete: la risultante, l’esito raggiunto finora, del mio lavoro (una missione) di relazione nell’ambito dell’arte contemporanea. Ambisco a far diventare la curatela la mia unica ragione di vita, ma nel frattempo, negli ultimi mesi a dir la verità, ho messo in secondo piano l’esigenza di “fare” per concedermi il tempo (il lusso!) di osservare, studiare, capire. Ho guardato attentamente come si lavora, nell’ambito curatoriale, parlando e relazionandomi con chi lo fa bene e da anni, saggiando l’esperienza altrui per apprendere quasi per osmosi: la stretta vicinanza comporta – spesso – un confronto più profondo, e talvolta implica uno “scontro tranquillo”. E’ giusto che vengano minate certe false sicurezze (la zavorra della comodità) che non contribuiscono ad un miglioramento della propria identità (professionale). Ho scelto che sia la “modalità relazionale” il mio approccio nei confronti dell’arte contemporanea e, se l’anno scorso a Independents avevo iniziato questo percorso con la “poltrona psicanalitica” del mio Take Care Corner – sprofondati nella quale si sfogavano gli artisti e i curatori che avevo come ospiti – quest’anno con TULPENMANIE, ancora più consapevolmente (perchè nel frattempo ho scoperto che ciò che io avevo fatto fin d’ora “di pancia” Obrist lo fa da decenni con metodo) ho allargato il cerchio degli inviti, ma ho stretto i legami con i miei interlocutori. Non più una sola poltrona, ma molte, un piccolo salotto per creare una dimensione informale, funzionale al confronto. Il mio sito, Olivares cut, che uso come contenitore dei miei scritti sull’arte, ha contribuito anch’esso ad aprire varchi, a intrecciare legami, approfondire conoscenze. E nel frattempo ho cominciato a scrivere anche per Artribune. E dopo mesi di chiacchierate, telefonate, viaggi in treno, residenze in quota, messaggi scritti e ricevuti, finalmente posso presentarvi quello che è la mia declinazione del tema scelto per quest’anno da Independents (la Bolla) e chi e perchè ho invitato a discuterne. Che rumore fa una bolla quando esplode? Temo che se la membrana della bolla sia stata tirata così tanto, così a lungo, da assumere l’aspetto di una leggerissima bolla di sapone, il rumore dello scoppio sia tra l’inudibile e l’irrilevante. E’ solo a distanza di tempo che si percepiscono i danni compiuti dall’implosione (più che esplosione) della bolla di un mercato economico giunto agli estremi dopo anni di rigonfiamento esasperato, partito dalla speculazione immobiliare che a domino a fatto cadere, una dopo l’altra, le roccaforti dell’economia mondiale. Lo “sboom”, come Adriana Polveroni aveva intitolato la sua pubblicazione del 2009, ha inevitabilmente coinvolto anche il mondo dell’arte contemporanea, a tutti i livelli. E adesso? E’ passato un lustro abbondante, ormai, dalla drastica inversione di tendenza che ha visto, se non un’interruzione, una notevole riduzione di esborso di denaro dedicato all’arte (sia esso proveniente da fondi pubblici o da privati ancora disposti ad investire tanto nell’acquisto di opere quanto nel finanziamento della ricerca), e si è ormai già stanchi perfino di sentir parlare di “crisi”, economica, di valori… Ad Adriana Polveroni, direttrice di Exibart ed attenta osservatrice del mondo dell’arte, vorrò chiedere cosa è cambiato da quel 2009, al tempo del quale raccontava della controtendenza a chiudere (dopo anni in cui se ne aprivano sempre di nuovi) i musei-gioiello, autoreferenziali delle archistar e della classe politica di tiro, ma destinati a morire perchè manchevoli di un programma di gestione d’impresa a lungo termine. Di questo avevo già cominciato a discutere con Pieremilio Ferrarese, docente presso il dipartimento di Management di Ca’ Foscari, e del paradosso che l’Italia, così ricca di beni culturali, non sia in grado di ragionare, o rivedere se stessa in chiave di “industria culturale”, tentando di riposizionare la cultura all’interno della catena del valore, capace essa stessa di produrre valore (economico). Ora che le fondazioni private hanno quasi totalmente preso il posto che era destinato al settore Pubblico, incapace di sopperire al sostenimento della ricerca (la sperimentazione anche in campo artistico necessita di essere sovvenzionata – e di questo vorrei parlarne con Virginia Sommadossi, Project developer e presidente di Fies Core, e Federica Tattoli, Editorial Assistant per ATP-Diary e Managing Editor per Fruit of the Forest), mi chiedo quanto l’anima “for profit” aziendale vincoli le scelte stilistiche degli artisti, piegati alle volontà della committenza che paga loro il (giusto) fee. Vorrò sentire che ne pensano in proposito Aurora Di Mauro, con una grande esperienza in materia di gestione dei musei (per la Regione Veneto) e creatrice di “Settima Onda”, personale progetto domestico/espositivo, Carlo Sala, critico e curatore presso la Fondazione Francesco Fabbri, e Valentina Bernabei, giornalista free lance, autrice del blog “parole D arte” e communication strategist del progetto “Sogni nei cassetti” del Laboratorio di Management dell’Arte e della Cultura di Ca’ Foscari. La fantomatica “crisi” dovrebbe aver portato di buono un’inevitabile scrematura, anche nel mondo dell’arte contemporanea. La razionalizzazione delle risorse economiche ha veramente bloccato lo sperpero di risorse, e le poche rimaste sono realmente ricadute a favore di una qualità più mirata, tanto di proposta artistica quanto di fruizione di pubblico, o è rimasta un’utopia nelle parole di Pierluigi Sacco, quando ipotizzava che il futuro dell’arte contemporanea, nel post-boom, fosse in linea con l’evoluzione della società post-industriale? L’arte dovrebbe essere in grado di mantenere un ruolo sociale reale, non piegandosi alle esigenze di mercato e alle voglie della committenza, ma consapevolizzarsi e guardare all’essenziale. Ma il ruolo degli artisti è doppiamente complesso perchè, per Sacco, è loro la responsabilità di condurre il pubblico (e quindi il mercato) verso una consapevolezza di ciò che stanno per fruire. Di questo vorrò confrontarmi con figure come Anna Quinz (Managing Editor e Creative Director di Franzmagazine) ascoltando il suo punto di vista sulla cultura come “fatto sociale”, in grado di migliorare la qualità della vita agendo sul luogo in cui si vive da protagonisti e non da spettatori, e con Giulia Galvan (dance dramaturge and curator), da tempo coinvolta in un progetto di sensibilizzazione (del pubblico/cittadino) all’ambito territoriale attraverso l’uso dell’arte come mezzo e non come fine. Vorrò confrontarmi con curatori come Marco Tagliafierro e Silvia Petronici, cercando di analizzare assieme a loro in che modo sia, in questi ultimi anni, cambiato sensibilmente o meno l’approccio del pubblico nei confronti dell’arte contemporanea, e quanto in questo incida l’artista e quanto il curatore. Vorrò chiedere a Mirko Baricchi (artista) quanto sia necessario per l’artista essere manager oculato e promoter di se stesso. Chiederò dunque, agli artisti (loro, veri protagonisti del mondo dell’arte contemporanea) che vorranno intervenire, se sentono il peso della responsabilità, nei confronti del pubblico, che li investe l’essere portatori di “valore”. Il “pubblico estemporaneo” di ArtVerona, gli artisti in particolare, saranno invitati a partecipare ai dibattiti attraverso una call.
In questi giorni, inoltre usciranno alcune interviste, sempre sul tema del VALORE DELL’ARTE, a figure professionali gravitanti nel mondo dell’arte contemporanea.
Il programma di TULPENMANIE si svilupperà con il seguente calendario (in via di definizione)
I dibattiti sono aperti al pubblico.Per intervenire come ospite ai dibattiti scrivetemi a petra@olivarescut.it.
Trovate TULPENMANIE ad ArtVerona > Fiera di Verona, padiglione 11 (al centro, sulla sinistra)
Un ringraziamento a LagoStore, sponsor tecnico di TULPENMANIE. A Leonardo Onetti Muda, per l’immagine di Tulpenmanie (Uncut, 2014). A Alessandro Giacomelli, per la grafica.
“Per attraversare la Colonia hai bisogno di una mappa”. Elisa prende dalla borsa un foglio piegato in quattro e lo apre davanti ai nostri occhi. Credo che neppure con quello sarei in grado di destreggiarmi tra il dedalo di corridoi vuoti che mi si para davanti. Ma a tentare l’esplorazione non sono io, ma il compagno di Maria, con la piccola Clara vestita da orsetto infilata nel marsupio e per niente infastidita dal freddo che investe anche la Colonia. Padre e figlia si incamminano lungo la rampa, mentre io ed Elisa riprendiamo la nostra chiacchierata. Elisa Bertaglia, che domani inaugurerà Plateau project, è una degli artisti che Dolomiti Contemporanee ospita nel programma estivo di residenze d’artista, attivato da un paio di mesi all’interno del nuovo “laboratorio in ambiente” intitolato Progetto Borca. Le ultime due settimane l’hanno vista all’opera con un lavoro site specific nella “capanna media” della Colonia dell’ex Villaggio Eni. Capanna che in realtà è uno stanzone con un tetto a capanna, dieci metri per dieci di pavimento, e assi di legno a coprire gran parte del cemento della muratura. Il linoleum, un tempo a venature viola e gialle, è sbiadito dalla luce entrata ininterrottamente da cinquant’anni dalle vetrate ampie, ed è ricoperto per intero da uno strato di polvere che completa la colorazione ormai virata in un grigio azzurrato.
Borca non è un luogo facile. Tra gli anni 60 e 70 Enrico Mattei e l’arch. Gellner (con l’aiuto di Carlo Scarpa) diedero vita ad un’incredibile progetto di architettura e urbanistica sociale, in una spinta paternalistica nei confronti dei dipendenti Eni, che previde la realizzazione, su un’area di 400mila metri quadrati, di un villaggio estivo comprendente 263 villette unifamiliari – immerse nel bosco che ha sostituito il ghiaione alle pendici dell’Antelao – un camping a tende fisse in legno (invaso ancora oggi di ragazzini chiassosi per tutto il periodo estivo), e il grande monumento silenzioso della Colonia. Quest’ultima è un complesso di 30mila metri quadrati composto da 17 padiglioni, 4 km di corridoi, un’immensa aulamagna vetrata con un lampadario degno di una sala da ballo surrealista, con docce, mense e dormitori, che fino agli anni ottanta ospitava contemporaneamente centinaia e centinaia di bambini, per finire poi in uno stato di completo abbandono. Questo fino a pochi mesi fa, quando la proprietà dell’imponente complesso decise di coinvolgere Dolomiti Contemporanee in un progetto di riconsiderazione dell’area, sì da trovare nuovo scopo agli stabili abbandonati ormai da troppi anni.
Dolomiti Contemporanee, avvezza a instaurare dialoghi proficui tra l’ambiente dolomitico e gli spazi artificiali inattivi o giacenti in uno “stato di stupidità” (fermi lì a far nulla, vuoti senza più motivo d’essere) – come dice il suo curatore, Gianluca D’Incà Levis – non si è fatta spaventare dall’imponenza del luogo, nè dalle aspettative su ciò che potrà o non potrà diventare. Un luogo pieno di storia che fa parte del nostro Paese (l’uccisione di Mattei fu la causa principale dell’arresto dei lavori di ampliamento del Villaggio), un “case study” di architettura sociale, con un’attenzione per i materiali e le forme tale da assicurare un’armonica integrazione dei complessi edificati con la natura circostante. Eppure i tanti anni di disuso sono sfociati spesso in dibattiti sulle sorti del villaggio, e una campana suonava anche per l’abbattimento incondizionato delle strutture. Ma il cane a sei zampe (impresso su quasi ogni oggetto, all’interno della Colonia, dalle tazze alle posate alle coperte), seppure un po’ acciaccato e polveroso, difficilmente si farà cacciare via…
Elisa è alla Colonia dalle sette di mattina. Arriva in auto (dorme poco più in sù, in una delle villette gellneriane, la 171, dedicata alla residenza degli artisti), spalanca il grande portone d’ingresso e, aperta la porta che dà sul refettorio della Colonia, percorre alcuni minuti i corridoi semibui. Sono rampe che seguono l’andamento del terreno fuoristante, su cui posa le fondamenta la colonia, e il declivio la fa scendere di diversi metri rispetto il piano d’ingresso. Si ferma a metà della discesa, dove si apre la “capanna media”, e riprende a lavorare, ripetendo giorno dopo giorno gli stessi gesti e rispettando il preciso piano di lavoro che si è data. Rimarrà lì per dieci giorni, divide il pavimento in dieci rettangoli uguali e ogni giornata sarà dedicata alla lavorazione di uno di essi. Dalle sette di mattina alle sei di sera, cioè sfruttando tutta la luce naturale che entra con difficoltà dalle vetrate della capanna. Il bosco fuori (alberi sfuggiti al controllo dell’Uomo) è così fitto da creare una cortina. Se piove, poi, Elisa è costretta ad accendere una pila per aiutarsi a vedere meglio. Pranza lì con qualche biscotto o dei crackers (il pasto vero è la sera, quando cena nella mensa del campeggio) quasi neppure bevendo, per non dover uscire dalla colonia con il rischio di chiudersi fuori nel bosco. E’ lì da sola. E disegna.
Fuori ci sono poco più di sei gradi, e dentro uguale. La capanna non è riscaldata e i vandali che bazzicano di notte per la Colonia abbandonata hanno rotto la finestra più alta. Oltre al vento entrano tutti i rumori del bosco. Elisa ha cinque o sei maglie addosso. Si accuccia sopra un maglione per ripararsi dal freddo del suolo e disegna. Disegna sul pavimento, sulla coltre di polvere che il tempo ha depositato, e lascia a sua volta una traccia, leggera, effimera e quasi evanescente, del suo lungo, costante e silenzioso passaggio lì. Disegna, come fosse una texture, centinaia di piccole bambine fluttuanti, rannicchiate su loro stesse, come stessero un po’ dormendo, un po’ facendo delle capriole nell’aria, un po’ nuotando. Un esile tratto a carboncino ne delinea i corpicini, per ciascuna segna i contorni del costumino da tuffatrici. E per ognuna di esse cela il capo, nascosto da una biscia, che pare avvolgerla come una morbida sciarpa. Quel prezioso, delicatissimo “mandala” di grafite è stato pensato da Elisa per non durare. Chi ci camminerà sopra un po’ alla volta lo distruggerà. Un lavoro organico – lo chiama lei – sopra lo sporco, la patina del tempo; di mimesi, perchè si scorge solo con uno sguardo attento, confondendosi tra le venature e i solchi del linoleum; che ha chiamato Plateau coniugando l’idea dell’altipiano montano a quella di “pavimento d’altitudine”, su cui ha scelto di lavorare, pianoro posto alla sommità di una delle tante rampe della Colonia; una distesa di polvere dalla quale emergono le bambine, giocose, selvatiche (la biscia come elemento che le riconduce alla loro parte più viscerale, istintiva), eco delle presenze chiassose di un tempo che abitavano per i mesi estivi quegli spazi. Ora, un’opera così integrata con lo spazio, che viene percepita come simbiotica con l’ambiente, non invasiva ma fortemente presente, non è che l’esito di quello che io considero il “vero” lavoro di Elisa Bertaglia alla Colonia: la scansione del tempo che lei ha dedicato alla realizzazione dell’opera. Quelle nove, dieci ore al giorno della sua esistenza che ha dedicato alla realizzazione dell’opera, avvolta dal silenzio più totale, nel freddo rigido di un agosto invernale, in una solitudine che non l’ha mai spaventata nè le ha mai pesato (della quale invece è andata fortemente in cerca) sono parte dell’opera stessa quanto le bambine di grafite.
Questa è la mia visione dell’opera, chiaramente, letta all’interno del contesto esperienziale di una residenza d’artista forse un po’ fuori dagli schemi; avendo conosciuto l’artista ed avendo instaurato con lei un legame empatico in un tempo brevissimo, fatto di confidenze e considerazioni profonde sul lavoro come trasmissione delle aspettative, tensioni, ricordi ed emozioni personali. Probabilmente è quello che ogni artista cerca di trasmettere, all’interno del proprio operato. Ma, chissà perchè, io l’ho capito così chiaramente solo lì, di fronte ad Elisa e alle sue bambine dell’altopiano.
******************************************************************************* info dal sito www.progettoborca.net Domenica 31 agosto, alle ore 15.30, alla capanna media della colonia dell’ex villaggio eni di borca di cadore, verrà inaugurata l’opera grafico-installativa plateau project di elisa bertaglia. L’artista ha realizzato il proprio lavoro attraverso uno dei programmi di residenza attivati per l’estate 2014 da dolomiti contemporanee con minoter per progettoborca. Appuntamento alle ore 15.00 di domenica davanti all’ufficio vendite del villaggio.
Qual è il valore dell’arte?
Contestualmente al periodo che precede la mia presenza ad Independents5/ ArtVerona, ho scelto di chiedere a differenti figure che gravitano nel mondo dell’arte qual è il loro punto di vista sull’argomento cardine che tratterò ad ottobre con Tulpenmanie.
Al di là del fattore economico, del valore di mercato delle singole opere, l’arte possiede in sé il valore intrinseco di modificare gli ambiti con i quali entra in contatto. Ho chiesto qual è il suo parere a Giulia Galvan, drammaturga/curatrice/traduttrice, la quale, in un’azione che non si discosta poi troppo dal concetto di “gentrificazione”, DOMENICA 24 AGOSTO mette “in strada” il progetto MIND YOUR STEP, certa che l’arte possieda il “valore aggiunto” in grado di migliorare lo stato delle cose, e in questo caso attivare, grazie all’arte, un processo di riappropriazione degli spazi urbani inattivi (abbandonati, degradati e conseguentemente pericolosi) modificando la memoria collettiva dei luoghi stessi “semplicemente” attraversandoli, passo dopo passo, In questo caso a passi di danza.
Dopo l’esperienza condotta a Vicenza con la rassegna Entrata d’emergenza come direttore artistico per la sezione danza, Giulia Galvan presenta (nell’ambito di OperaEstate Bassano, per la sezione Danza di B.Motion) MIND YOUR STEP, progetto scelto dal Centro per la Scena Contemporanea Garage Nardini e che si inserisce nel programma Léim finanziato dall’Unione Europea e dedicato alla formazione di manager culturali.
“I movimenti creano centri”. MIND YOUR STEP si sviluppa come una vera e propria “ricognizione urbana”: il pubblico, guidato da Giulia, percorrerà un’area della città di Bassano attraverso un itinerario non consueto, e i tre luoghi di sosta, che ospiteranno le azioni performative, non si conosceranno fino alla fine, contribuendo a sviluppare negli spettatori una rinnovata percezione di spazi conosciuti e lo stupore di fronte a luoghi inaspettati.
L’azione determinata dal movimento della danza amplifica la percezione di uno spazio. E, se nei danzatori e coreografi la consapevolezza del proprio corpo e del luogo che vanno ad occupare con le loro azioni è maggiore, questo non significa che non possa avvenire anche in un pubblico coinvolto: l’interazione spontanea del pubblico è una delle prerogative di MIND THE STEP, pubblico che sarà gradualmente guidato dai performer a prendere parte alle azioni affinchè queste avvengano in modo del tutto naturale e soggettivo.
A compendio del percorso di “percezione urbana”, ritmato dalle performance di Tommaso Monza e Claudia Rossi Valli, Chiara Frigo e Silvia Gribaudi, nella mattina di domenica si terrà una tavola rotonda presso il Bassano Urban Center sul tema attorno al quale gravita MIND YOUR STEP: il rapporto tra cultura, società e paesaggio urbano. In che modo la coreografia e l’urbanistica possono dialogare tra loro, qual è l’utilità dei paesaggi camminabili, il coinvolgimento delle comunità locali nel processo decisionale e il modo in cui l’arte può avere un impatto sullo sviluppo urbanistico. Interverranno Matteo Corsi, ricercatore di Kallipolis, l’attivista e operatore culturale Teodor Celakoski di Pravo na grad, il giornalista Giulio Todescan di Laboratorio Ferrovieri e la coreografa e architetto Tiziana Bolfe Briaschi.
La sessione pomeridiana di MIND YOUR STEP sarà aperta da Mary’s bath, nuova produzione site specific ad opera di Tommaso Monza e Claudia Rossi Valli. Danza intima che si lascia appena spiare dal pubblico, ad accompagnare la scoperta di Mary della propria sensuale purezza, nel lento e riflessivo rituale dell’abluzione che precede la promessa matrimoniale.
Ballroom, ideata da Chiara Frigo, è l’azione centrale di MIND THE STEP. Racconto a Giulia la mia passione per le balere vecchio stampo, le milonghe argentine e le sale da ballo scozzesi e le chiedo di spiegarmi, nel dettaglio, quale sarà l’azione.
Quello che si propone di ricreare Ballroom è l’atmosfera, le sensazioni di una sala da ballo. La cosa importante è trasformare, nella percezione e nella memoria (condivisa) degli spettatori, le vie che attraversano e i luoghi in cui entrano, e Ballroom ti porta proprio da un’altra parte: è molto educativo capire come l’arte può creare trasformazione, stravolgimento, e nel caso di Chiara (Frigo), intimità precoce che detto così sembra hardcore ma intendo dire che si crea un’atmosfera di intimità fra le persone in un modo che io stessa non avrei pensato, quando ho partecipato come pubblico allo spettacolo a Maastricht. Perchè non si è solo pubblico, in realtà…
Sono pronte le sedie, disposte in quadrato lungo il perimetro di una sala che non si conosce. I danzatori teenager della rete no limit-action coinvolgeranno il pubblico, che non saprà cosa aspettarsi e verrà coinvolto nell’azione. Giulia racconta che ciò avviene in un modo che perfino lei, così restia al contatto con sconosciuti, ha trovato molto gradevole, quasi familiare. Le dico che penso di capire piuttosto bene, perchè in milonga (le sale dove si balla il tango) funziona così, che nel brevissimo arco di tempo dell’interazione con l’altro (non conosciuto) che ti invita a ballare si raggiunge un’intimità che non ha paragone in altro ambito, nella vita quotidiana, nelle relazioni normali.
C’è una differenza sostanziale tra la discoteca e la balera, e solo se si è frequentato l’una e l’altra la si può comprendere. Nella prima si balla come non ci fosse un domani, il ritmo è una faccenda opzionale. E’ un’azione corale, ma che sostanzialmente si compie individualmente. Si balla da soli. Nella seconda, invece, non si muove un passo se non si è in due. La balera prevede un’interazione molto maggiore, ballare in un abbraccio richiede un coinvolgimento indubbiamente più elevato, complesso del muoversi (a ritmo) da soli. Che si sappiano o meno i passi di danza, in Ballroom, è una questione irrilevante. Quello che importa è la percezione dell’altro, e dello spazio che si attraversa, con i modi e i tempi contratti di un ballo.
A conclusione del percorso guidato Silvia Gribaudi ripropone A corpo libero, sua storica performance che affronta un argomento di grande attualità qual è la condizione femminile “attraverso la fluidità gioiosa del corpo”.
MIND YOUR STEP – DOMENICA 24 AGOSTO,
Bassano Urban Center, via Porto di Brenta
Morning session dalle 10 alle 13
Afternoon session dalle 15.30 alle 18
remindyourstep@gmail.com
(Un estratto di questo post è pubblicato su ARTRIBUNE)
The inner outside (bivouacs) apre al Nuovo Spazio di Casso la stagione espositiva 2014-2015 di Dolomiti Contemporanee con una collettiva, a cura di Gianluca D’Incà Levis, che propone diversi piani di lettura del concetto di bivacco. Bivacco che non è contenitore ma propensione (mentale, ancor prima che fisica) alla permeabilità, è condizione minima necessaria all’idea di protezione.
Al tempo degli “scout”, usavamo erroneamente l’espressione “fare azimut” per giungere da un punto A ad un punto B attraverso il percorso più breve possibile. E, se la geometria ci insegna che la raffigurazione di questo percorso ottimale è la linea retta, compiere nel mondo reale questo percorso è quasi sempre improbabile.
Questo esercizio di attraversamento lo compivamo con costanza e tracotante determinazione in tenera età, “scoutini” su per le montagne, zaino in spalla, tirando dritti come dei muli coi paraocchi a tagliare di netto i tornanti. Spesso ci si arrampicava come si poteva, sorreggendosi ai rami delle piante che ci si paravano davanti, affondando le mani nude nella terra smossa, valicando massi puntuti con i nostri scarponi pesanti. E nel fermarci a passare la notte, in uno di questi “azimut”, si intentava un bivacco come si poteva. Niente radure, niente pianori, così ci si accontentava dello spazio del sentiero appena battuto, e con qualche paletto puntato a sghimbescio su terreno, una cerata o un poncho come copertura e qualche buon metro di cordino a fermare il tutto, ci si apprestava a passare la notte con un occhio aperto e uno chiuso, con le orecchie tese ad ascoltare i rumori del bosco, cercando di riposare seppure stesi su una superficie nemmeno lontanamente piana, nemmeno lontanamente comoda.
L’iconografia di un bivacco non è semplice da definire: i giacigli su cui riposavano le truppe che nell’antichità e durante il medioevo scorrazzavano per mezza Europa talvolta non prevedevano alcun tipo di copertura. Gli uomini giacevano sdraiati a terra, fianco a fianco, coperti dei soli vestiti aspettando che facesse chiaro per ripartire. Gli accampamenti più organizzati disponevano di tende, e assumevano le fattezze di piccole città ordinate. Ma che si sia in guerra o, più verosimilmente qui, in alta montagna a battere sentieri in quota, l’istinto a proteggersi porta a ricreare una nicchia entro la quale stare, un ambiente essenziale, la ricerca dell’idea di interno che differisca da un esterno che è “altro”, un luogo dove ritrovarsi, come si stesse nel grembo materno.