Estate 2019. Quando ci si mette in testa, già l’anno prima, di dedicare a se stessi – per una volta – un periodo piuttosto lungo di ferie, beh, è bene farlo. Non c’è mai un vero motivo per andare via da casa o meglio ce ne sono spesso troppi da elencare, ma credo che il mio, stavolta, fosse una silenziosa richiesta di risposte. Le domande, anch’esse, erano nebulose. Ma ero certa che staccare la spina, allontanarsi da casa, attraversare luoghi mai visti, conoscere persone nuove, trovarmi magari anche in situazioni scomode, mi avrebbe senza dubbio portato ad attivare la mente fuori dal loop nel quale sono solita impantanarmi. Così la cosa migliore da fare è acquistare un biglietto aereo, preparare un bagaglio consono alla meta, e fissare un itinerario di massima. E poi lasciar fare un po’ al caso. Le domande prima, e le risposte poi, sarebbero arrivate.
Dunque via, il 9 luglio mi imbarco dall’aeroporto di Venezia, destinazione Alghero. Naturalmente il volo è in ritardo, ma in quel frangente l’ho trovato una benedizione: quanto spesso, nella “everyday life”, ci capita di avere del tempo “vuoto”? Quello dell’attesa – di un volo – è un ottimo contenitore che, se non ci fa sprofondare nell’ansia o nell’apatia, consente di dedicare del tempo prezioso a ciò che avevamo lasciato indietro. Leggere, per me, o scrivere, ancor di più: un’esigenza latente, che pulsava in maniera insistente, e ha trovato, nell’andirivieni degli aerei che non erano i miei, ma che vedevo alternarsi a tempo di valzer, il giusto ritmo per fare ciò che più desideravo.
L’accoglienza che l’isola “maledetta”, come la chiamavo fino a pochi mesi fa, mi riservava, in quel martedì pomeriggio, non è stata delle migliori. All’atterraggio, una nebbia appiccicosa e umida ingrigiva il panorama che scorreva fuori dal finestrino del bus che mi portava fino al centro città dall’aeroporto, peggiorando – se possibile – le già scoraggianti architetture che il mio sguardo incrociava. Devo dire la verità, cominciava a salirmi un senso di malessere, unito al fatto di aver deciso quasi di punto in bianco di partire da sola, per un viaggio poco nitido quasi quanto l’aria pesante che giungeva dal mare. I pochi passi che a tarda sera ho fatto per raggiungere il centro città dalla stanza in affitto in un vicolo semideserto non mi stavano aiutando a sollevare il morale. Scappare dall’aria fetida della pianura padana e ritrovarsi in un’afa ancora peggiore, beh, davvero non me lo aspettavo…
“Domani è un altro giorno” penso, infilandomi sotto le lenzuola, Rossella O’Hara isolana che non sono altro. La mia inclinazione al tragico a volte è quasi comica! Ma stavolta è stato esattamente così. Non mi sono svegliata tra patetici Nordisti (americani), ma nel Sud che la mia immaginazione attendeva. Eccolo dov’era, il cielo blu, spazzato dalle nuvole da un vento con carattere, che arrivava dal mare con la stessa precisione di sempre, mi dicono poi gli isolani, e ripulisce l’aria e le menti. Mi addentro quasi in preda all’entusiasmo nelle viuzze impervie del centro di Alghero, soffermandomi ogni tanto a parlare con qualche vecchio venditore di corallo. “Oggi tutto al 50% di sconto”, mi chiosa un nonnetto baldanzoso. Mi mostra i presepi scolpiti con dovizia di particolari in rami di corallo spessi quanto un arto umano. “Non se ne trovano più, ormai, di coralli così, signorina. Ormai non restano che rametti di poco conto, per farci bracciali e ninnoli da vendere ai turisti. Ma questa bottega è una delle più antiche della Riviera del Corallo”.
Mi documento: la Riviera del Corallo è quel tratto magnifico di litorale che unisce Alghero a Bosa Marina, la seconda meta del mio viaggio. Ma sto correndo troppo! Il mio è un viaggio lento, quasi quanto i mezzi di trasporto che male congiungono il nord e il sud della Sardegna, e con i quali ho litigato per l’intera durata del mio tour.
Nelle poche ore che trascorro ad Alghero capisco che la città è un gioiello. I bastioni, le duecentesche mura difensive che costruirono i Doria e i catalani rinforzarono durante il regno catalano-aragonese, fresche di restauro, sono uno splendore. Ammantano il cuore dell’abitato come un velario. Pare strano che anch’esse non vengano mosse, sferzate dalle folate di maestrale che si insinua fin dentro le case, spalancando imposte e depositando sulla battigia grandi quantità della pianta acquatica (non una vera e propria alga, quindi), la posidonia oceanica, che – pare – abbia dato il nome alla città stessa. Alghero viene da alga. Quasi una contraddizione in termini!
In tarda mattinata ho un appuntamento ad un delizioso caffè in via Gilbert Ferret. Mi aspetta Susanna, una vicentina che, per amore, ha lasciato la nostra comune città per trasferirsi ad Alghero. Mi racconta del suo Luca, che insegue il vento di baia in baia per surfare: una ragione di vita. E mi parla di come è stato lasciare la città che si porta nel cuore, alla ricerca di un nuovo lavoro, mentre scopre un nuovo modo di vivere, quello sardo, così lontano da noi, della padania impazzita dalla frenesia del produrre sempre, ad ogni costo.
Se c’è una cosa che ho respirato chiaramente, quanto la brezza marina, in Sardegna, è la diversità di uno stile di vita che davvero poco ha a che vedere con il Nord esasperato della Penisola. Io leggo certe inclinazioni come contraddizioni: un territorio come quello sardo che ha moltissimo da offrire, ma che viene palesato, mostrato, comunicato, sfruttato anche, molto al di sotto di quelle che sono le sue reali potenzialità. Da chi lì ci vive, da chi nell’isola è nato, fare diversamente parrebbe fare violenza, a se stessi, ad un modo di vivere che ha ritmi blandi e pacati, un linguaggio silenzioso, o sbraitato a male parole. Che non solo è isolano, ma è fortemente e veracemente sardo.
La solarità di Susanna, accentuata dal caldo sole di luglio, mi rassicura, e io voglio crederle. La Sardegna, il popolo sardo, non è facile. Ma sotto quella scorza ruvida, fatta breccia in quel reticente distacco, si trova una devozione e una dolcezza che lasciano, in certe occasioni, senza fiato.
Ne ho avuto presto esperienza, di ciò, nel mio secondo approdo: Tresnuraghes.
Il paesaggio incantevole della Riviera del Corallo comincia finalmente a mostrarmi il volto forse più amato della Sardegna, quello costiero, fatto di piccole baie dalle acque limpidissime, circondate da una vegetazione bassa e fitta che si dipana attraverso un terreno roccioso. La strada che percorro in bus è piena di curve a strapiombo sul mare. Il fascino è spesso oscurato da un sentimento misto a paura. L’autista sembra esperto, ma non passa molto che incrociamo un incidente. A lato della carreggiata due automobili si erano schiantate contro la parete di roccia che costeggia quel tratto di strada. Difficile transitare nel poco spazio sgombro rimasto…Ma ce la caviamo, e senza altri imprevisti arrivo a Bosa, dove mi attende Valentina.
A Tresnuraghes, che è un paesino arroccato in collina a una manciata di km dal mare, ho programmato di trascorrere un breve periodo come “Workawayer”, un modo insolito per soggiornare lontano dalla propria casa, ed entrare in contatto con persone, famiglie, comunità in tutto il mondo. Gli Host offrono ai Workawayers vitto e alloggio in cambio di qualche ora di lavoro al giorno. Un giro nella dettagliatissima piattaforma on line e si scoprono le opportunità più disparate: dalla raccolta di olive in Grecia alla gestione di mandrie di bisonti in Canada, dalla cottura delle conserve nel sud della Francia alla cura dei giardini nelle campagne inglesi, e così via. Qualcosa a metà tra un Airbnb e un’esperienza di volontariato. Ma, se possibile, ancora più intima.
Valentina, dunque, è la mia host. Mi abbraccia come se non mi rivedesse da tempo, ma è il nostro primo incontro. La sua allegria mi travolge: alterna i racconti della casa che mi accoglierà per la prossima settimana ai suoi imminenti programmi. A breve partirà per l’India, dove ha in cantiere progetti che mi affascinano, come quello di aprire un tour operator che si dedichi ad organizzare viaggi tra i templi e i santuari della parte più spirituale di quella lontana terra. A settembre, la casa nella quale mi sto recando accoglierà un gruppo di adepti per sette giorni compiranno un ritiro spirituale con un “taita” sudamericano (parola a me sconosciuta fino a quel momento, ma che dovrebbe significare qualcosa di simile a “padre spirituale, guida”). Ad ogni modo, lei a Tresnuraghes, con me, non ci sarà. E non ci sarà nemmeno sua madre Giuseppina, con la quale mi ero scritta prima di partire, perlomeno fino alla fine della settimana. Poco male, ma con chi starò? Nella bellissima e particolare casa/labirinto con due enormi terrazze che affacciavano sul mare, alla fine, ho trascorso la settimana con Lalla e Luciano, una splendida coppia di anziani e distinti signori, zii di Valentina, che mi hanno accolto letteralmente come una di famiglia. Del “digital device” della Sardegna, che mi impediva di usare internet come avrei voluto, c’è da ringraziare proprio questo impedimento, che costringe a liberarsi per un po’ di tablet, cellulari e computer, per fare altro. Parlare, per esempio. O ascoltare.
I racconti di Lalla, in primis, che con parole piene di nostalgia narrava di quando, da giovani, lei, la sorella e le cugine, trascorrevano in quelle stanze le vacanze estive. Il giardino ormai incolto, che con difficoltà ho provato in parte a domare nelle mie ore di “laboro”, era in passato rigoglioso e pieno dei profumi del Mediterraneo. L’albero di fico inebriava i sensi con i suoi frutti dolcissimi, le canne al vento dei racconti di Grazia Deledda svelavano le vene d’acqua sotterranee che attraversavano la tenuta, e ogni albero e fiore beneficiava del nutrimento sommerso. Lalla ci è nata in quella casa, durante la Seconda Guerra Mondiale, quando la famiglia si era trasferita da Cagliari più a nord, fuori dalle tratte segnate dai combattimenti, e lì ci riporta il cuore e le membra ogni anno.
Per me avevo a disposizione una piccola camera al primo piano della casa, con un bagno privato, come ogni stanza da letto aveva: nella ristrutturazione (mai finita, in realtà) degli anni Ottanta, era previsto che la casa potesse ospitare, per l’estate, le tante famiglie dei parenti di Lalla. Ma poi, si sa, la vita fa ciò che vuole, e cambia i piani. E forse è anche per questo che Valentina e i suoi hanno deciso di ospitare amici vecchi e nuovi, tra quelle mura. Perché, come scriveva Richard Bach “i membri di una ‘famiglia’ non crescono quasi mai sotto lo stesso tetto”.
Per una settimana circa la mia quotidianità fu più o meno questa: la mattina sveglia presto, scendevo in cucina, mi preparavo te e fette biscottate, salutavo chi già era sveglio, e poi mi trasferivo in terrazza per fare colazione fronte mare. Il Maestrale, in quei giorni, si faceva sentire. Era una presenza costante, che a volte semplicemente rinfrescava il corpo e la mente mentre trascorrevo le mie ore mattutine a pulire tavoli e sedie, togliere il muschio dalla scalinata esterna, ramazzare lo spiazzo antistante il giardino o zappare le aiuole. Altre volte, però, soffiava deciso, come volesse liberare qualcosa che era chiuso all’interno. E allora strappava il telone appena posizionato in cima al gazebo, faceva volare le tende di vimini che ombreggiavano le vetrate della sala da pranzo, sparpagliava i mucchi di sterpaglia accatastati a fianco dei muretti in pietra. Non si doveva che attendere. Magari trascorrendo il tempo alla finestra, a guardare il mare increspato di onde, oppure restando in camera a leggere un libro, o a scrivere, come più volte ho fatto in quei giorni.
A vivacizzare le giornate ci pensavano i nipoti di Lalla: il figlio Pierguido era da poco arrivato in Sardegna dalla Svezia, dove vive assieme ai suoi tre figli maschi di sedici, dieci e sei anni, divoratori seriali di pizza e videogiochi. Tra loro parlavano sottovoce una lingua che per la maggior parte del tempo non capivo perché, anche quando usavano l’italiano, facevano probabilmente di tutto per non farsi capire. C’era qualcosa di buffo e allo stesso tempo molto invidiabile nel loro fare squadra compatta, questi tre piccoli uomini a volte sembravano parte di un’unica entità più grande, in bilico tra il gioco infantile e la piena preadolescenza.
In uno dei pomeriggi in cui ho raggiunto Bosa Marina per approfittarne di un bagno in mare, sono stata al seguito di questa famiglia completamente al maschile (la madre era rimasta in Svezia), e tra una pagina e l’altra del libro che mi stava assorbendo, non potevo di tanto in tanto non alzare lo sguardo e ridere del loro andirivieni allegro che li impegnava in acqua in una continua ricorsa.
Anche Lalla e Luciano abitano in Svezia. Ho scoperto dai loro racconti che alcuni anni fa hanno deciso di lasciare l’Italia per andare a vivere vicino al figlio, dove poter veder crescere i nipoti. Non deve essere stata una scelta facile: trasferirsi in un paese straniero, lontano dalla propria terra d’origine (la Sardegna l’avevano già lasciata da diversi decenni, per vivere in Romagna, da dove è originario il marito di Lalla), senza conoscere lo svedese né tantomeno l’inglese… ma si dicono felici, di vivere in paese civile e ospitale, verde e attento ai bisogni dei suoi cittadini. Come biasimarli, d’altronde? Di questi tempi bui, chi non se ne andrebbe dall’Italia?!
Eccola, una delle domande, apparire in tutta la sua lucidità: me ne andrei dall’Italia? Me ne andrei da Vicenza? Forse sì. Non per sempre, ma almeno per un periodo sufficientemente lungo per comprendere un altro stile di vita, per depurarmi dall’odio e le bassezze che stanno insozzando il nostro “bel paese”. Per levarmi dalla testa che se le cose non vanno qui, dove sono cresciuta e dove vivo, non possono funzionare altrove. Invece credo sia proprio questa, una delle risposte: si deve andare dove si sente che si può stare bene, sia in capo al mondo, non importa. Ma qualcosa deve pur cambiare. Quanto è difficile uscire dalla comfort zone? Tanto, troppo. Però è solo dandosi un calcio nel fondoschiena, da soli, con la difficoltà del gesto, che si trovano altri mondi, altre vie, altri mezzi per procedere.
Forse non si troverà subito la fermata giusta (com’è stato per tutto il mio soggiorno sardo, dove gli stop dei bus non erano affatto segnalati e cercavo lungo le vie il punto esatto dove attenderne il passaggio brandendo il telefono con googlemaps come un rabdomante va in cerca dell’acqua), però bisognerebbe almeno tentare. Rompere gli schemi un pezzo alla volta, magari sbagliare corsa, o fare l’autostop. Tornare indietro e cercare meglio, ma il tutto va fatto per poter andare avanti.
Non posso che provarci! Ma intanto, in questo racconto, mi fermo qui. Prossima fermata: Cagliari. La storia continua…
(fine prima parte)