A poco più di una settimana dall’inizio di ArtVerona mi trovo con Aurora Di Mauro, per un aperitivo e una conversazione informale all’ombra delle logge restaurate di fresco della basilica palladiana e di fronte a due bei bicchieri di cabernet di un rosso scintillante. Apprezzo che lei, dopo una lunga giornata di lavoro, abbia preso un treno per raggiungermi a Vicenza e parlare con me, in una sorta di anteprima al salotto di TULPENMANIE del suo particolarissimo progetto d’arte, Settima Onda. Da un po’ speravo di scambiare con lei alcune considerazioni sul tema del “valore dell’arte”, curiosa di ascoltare la sua personale declinazione e vedere, attraverso le sue parole, come sia riuscita a trasmettere la sua attitudine, all’arte. E, cogliendola ancora nelle sue vesti di museologa, appena uscita dall’ufficio, colgo l’occasione per chiederle di raccontarmi qual è lo stato delle cose. Il suo ruolo di museologa all’interno di un’istituzione pubblica qual è la Regione Veneto, non è affatto facile da svolgere oggigiorno, sia per chi dirige un museo sia per chi dalla scrivania di una pubblica amministrazione deve avere un ruolo di coordinamento. In sintesi pare emergere che, tra le fila della dirigenza storica (ma questo è, tristemente, all’ordine del giorno, in Italia), non ci sia nessuna volontà di apertura alle nuove (ormai neanche tanto più nuove) modalità di “fare” il museo: le collezioni non sono più pensabili solo ed esclusivamente come un tesoro di beni materiali da esporre sopra piedistalli e da contemplare estasiati. Le tecnologie interattive consentono di trasmettere anche un’enorme quantità di informazioni che vanno a comporre i beni immateriali, i saperi, che è impensabile trattare come materiali di secondo livello perchè non conservabili sotto formaldeide. Ma ancora niente, cara Italia: nessuna apertura per realizzare musei innovativi, al passo con i tempi. Che hanno, questi poveri musei, di che malattia soffrono? Soffrono di una cronica incapacità di gestione delle risorse – poche – a disposizione e dell’incapacità a intendersi come imprese culturali. Nei primi anni Novanta la “pillola” che lo Stato cercò di far ingurgitare ai musei statali, assicurando che – nonostante il sapore disgustoso – avrebbe risanato la situazione catastrofica in cui versavano, si chiamò “Legge Ronchey”. Posologia: 1 o 2 manager, da prendere nel direttivo museale, prima o dopo i pasti. Attenzione: creano assuefazione. I musei sono guariti? A detta di Aurora no. Si è creduto che la strategia che prevedeva il subentro dei privati nella gestione dei servizi aggiuntivi negli Istituti d’Arte e Antichità dello Stato, a sviluppare imprenditorialità in un settore che necessitava di rilancio e innovazione, potesse essere risolutiva, lasciando che società esterne si occupassero di tutti quegli ambiti in grado di creare economia (bookshop e ristorazione in primis, didattica, visite guidate, ecc.) mentre gli “storici dell’arte” (figura professionale che “non esiste”, ribadisce Aurora – leggi “non riconosciuta”, perlomeno in Italia) a dirigenza dei musei si sarebbero potuti finalmente dedicare allo studio, senza preoccuparsi ulteriormente di come sbarcare il lunario delle istituzioni di cui erano a capo. Il tentativo di privatizzazione si è tradotto, in realtà, in una liberalizzazione mancata e un fallimento del mercato: non solo si è visto l’ingresso dei privati ma, inaspettatamente, la legge ha permesso la nascita di società pubbliche, anch’esse impegnate nella gestione dei servizi, dando vita, talvolta, a un conflitto d’interessi. Electa Mondadori, PRC Codess, Civita, Zetema sono le principali società che in Italia si sono spartite le fette della torta chiamata Beni Culturali statali, invischiando al loro interno cariche pubbliche sotto “nuove” spoglie, spesso con il risultato di un’evidente mancanza di chiarezza. Vent’anni dopo l’uscita della legge Ronchey la questione del ruolo dei privati sulla “cosa pubblica” è ancora controversa (nel 2013 ci riprova Bray con “Valore Cultura”, una norma per la concessione in via sperimentale di alcune strutture ai privati per far fronte alle emergenze e alle carenze di personale). In un paese come il nostro dove solo l’1,1% del Pil viene investito in cultura, la questione aperta è non tanto la necessità di incrementare il mercato della cultura, ma piuttosto se e quanto è opportuno coinvolgere in questo i privati. Come si può ancora sperare che il “visitatore medio” di un museo sia in grado di sostenere spese elevate, ad esempio all’interno di un bookshop, magari per del merchandisign eccessivamente costoso, quando (secondo Federcultura) a malapena si è mantenuta costante – in tempi di crisi rispetto l’epoca precedente – la sola spesa del biglietto d’ingresso? Piuttosto, Aurora riflette, si dovrebbe incentivare l’ingresso in un museo anche grazie ad una serie di “benefit” che il biglietto stesso potrebbe concedere, coinvolgendo così il mercato dell’intero territorio all’interno del quale il museo è inserito, che conceda scontistiche reali (non fittizie e miserabili) su prodotti altri. O piuttosto concedere ingressi agevolati da “facilities” (che coinvolgano, ad esempio, il sistema dei trasporti pubblici). Aurora si chiede, molto onestamente, quanto senso possano ancora avere le facoltà di economia della cultura o, più che altro, quali contributi reali tali facoltà abbiano dato negli ultimi anni, soprattutto in relazione alla disputa sul coinvolgimento delle industrie all’interno del sistema economico che governa l’arte e la cultura. Non c’è il rischio di un distacco troppo netto tra i due ruoli, quello del manager e quello del direttore museale, tale che il primo non riesca (non voglia, non debba) subentrare al secondo o, meglio, con ogni probabilità è ancora presente il gap tra queste due figure senza che si sia riusciti a trovare un punto di contatto, un accordo? Forse continua a persistere un’incomprensione di fondo delle reali esigenze di un museo, il quale certamente deve produrre economia (perlomeno ai fini del proprio sostentamento) ma non deve dimenticare che il suo fine ultimo è produrre cultura e informazione. La staticità delle cariche (che non vengono rinnovate) e certi meccanismi lenti a cambiare, o bloccati in meadri burocratici, non consentono uno sviluppo reale dei musei, non un aggiornamento anche in virtù delle evoluzioni tecnologiche e, non meno, sociali. La nostra chiacchierata un po’ alla volta si allontana dalle considerazioni sui musei, scivolando verso il racconto, più personale, di come è nata Settima Onda. In una fase di “erosione sentimentale” (il cuore – spezzato – ha sempre una parte di rilievo nella “commedia dell’arte”) e di tracollo di alcune speranze professionali (vede svanire in un soffio la speranza di dare seguito alle attività che dal 2003 portava avanti nell’ambito del Patto dell’Arte Contemporanea, grazie ad un cospicuo finanziamento – concesso dalla Finanziaria di quell’anno – che la Regione Veneto aveva destinato all’arte contemporanea, appunto) nel 2011 Aurora ha applicato la terapia del “reset”: un colpo di spugna che ha comportato lo sventramento del proprio appartamento (in un condominio anni sessanta di una Padova tendente al melting pot, forse leggermente meno xenofoba di quanto sia ora) per farne non solo un luogo dell’abitare nuovo, ma anche un luogo per accogliere l’arte e con lei gli artisti. Le mostre in casa sono una cosa, ma ri-creare casa commissionando pezzi di questa ad artisti, è un’altra. Aurora fece entrambe le cose. In quell’anno oltre a due giovani e valenti architetti, Edoardo Gamba e Davide Pesavento, collaborarono alla rielaborazione della casa Pino Castagna, che ideò la pavimentazione ceramica del soggiorno, Arthur Duff a mistificare il guardaroba, Francesco Candeloro a creare una visione caleidoscopisca del panorama padovano e Valerio Bevilacqua a interpretare pittoricamente il titolo del progetto. E dal 2012, anno di apertura di Settima Onda, Aurora prosegue nel suo percorso indipendente.
Settima Onda è un “appartamento relazionale per la libertà delle arti” e Aurora ha scelto di essere essa stessa il “capitale” di questo progetto, con le sue personali risorse, intellettuali ed economiche. E questo “salotto allargato” di una donna “sola ma non solitaria”, come lei stessa si descrive, è aperto tanto ai progetti espositivi che Aurora finanzia quanto ai protagonisti di questi lavori, siano essi artisti, condomini o avventori curiosi di scoprire ciò che capita tra quelle quattro particolarissime mura. Aprire le porte di casa anche a sconosciuti non la intimorisce: la paura impedisce alla condivisione di esistere.
Aurora è la Steve McQueen di Papillon che fugge dall’isola della sua costrizione emotiva sfruttando la settima onda, aggrappata non ad un sacco di noci di cocco, ma ad una passione, ad un desiderio di libertà che veste i panni dell’autenticità, tanto nelle azioni quanto nei rapporti umani. Ha cambiato il suo stile di vita, all’interno di un percorso di “decrescita felice”, impegnandosi a rispettare i tempi naturali dei progetti che le vengono proposti, dalla loro ideazione (che magari avviene durante una cena) fino alla loro realizzazione, abbandonando la frenesia bulimica da mostre che purtroppo, di questi tempi, pare all’ordine del giorno. Ragiona quotidianamente sul tema dell’abitare e del piacere, facendone i due punti cardine delle attività di questo spazio “poliespositivo” anticonvenzionale. E sono certa che a TULPENMANIE, dove avrò il piacere di averla come ospite, saprà sapientemente portare avanti queste tematiche, secondo la sua personale inclinazione. Mi lascia, al termine della nostra conversazione, ricordandomi che non è della mancanza di denaro (povera Italia) che ci deve spaventare ma, piuttosto, della mancanza di idee. (Immagine in evidenza: Valerio Bevilacqua, Un’onda per Aurora. Courtesy Settima Onda). Vi ricordo il calendario di TULPENMANIE ad ArtVerona – sezione Independents.