Alice mi invita ad assistere ad una performance in una importante galleria d’arte di Mestre. Non so esattamente in che consista il suo intervento; nel testo del messaggio accenna ad una inaspettata “verticalità”. Nella mia mente spunta lei, funambola eterea, in bilico su corde tese sopra le piazze di Venezia o Padova, come sono solita vederla nelle foto che posta sul suo blog. E anche stavolta mi immagino di trovarla a sfidare la gravità, magari appesa al suo ombrellino bianco di stoffa…
Invece, dopo aver faticato non poco a scovare lo spazio espositivo, perdendomi in un dedalo di viuzze lungo la darsena mestrina, la ritrovo certamente in bilico, ma sopra ad un altissimo paio di trampoli.
Alice sembra una bambolina allungata. Il corpicino minuto è avvolto nella maglia nera, questi pantaloni lunghissimi che coprono le sue snelle gambe e al contempo le stecche di legno la fanno sembrare infinita. Ha i capelli scuri raccolti in uno chignon e le guance, così come le labbra, sono dipinte di un rosso vivace. Lei e un’altra donna vestita allo stesso modo, inerpicate vicino al soffitto, in un moto senza sosta percorrono chilometri avanti e indietro per l’atrio della galleria. Un fascio di fogli stampati tra le mani, leggono incessantemente, sovrapponendo le loro voci basse, quasi stessero leggendo per loro stesse. Il brusio in galleria è tanto e io fatico a capire di che stanno parlando. Come loro faticano, prese come sono, a testa bassa su quei testi, a scansare la gente che senza badarle più di tanto entra ed esce dalla galleria. (Il mio cuore è più stanco della mia voce, 2013, performance di 120 minuti)
Al centro della sala principale c’è un tappeto piuttosto grande, potrebbe tranquillamente coprire metà del mio salotto. I fili di lana intrecciano una frase, che si ripete lungo tutta la superficie morbida: COSA RESTA DI NOI? COSA RESTA DI NOI? COSA RESTA DI NOI? Ad libitum..
Lo guardo, con un velo di malinconia. E’ una domanda che già posta una sola volta può mettere in crisi parecchio. Figuriamoci che può fare l’ossessività della reiterazione…Giro intorno a questo tappeto, scansando – pure io come le ragazze sui trampoli -la folla per evitare di calpestare l’opera.
Sono stupefatta da quanto l’artista sia stato in grado di sviluppare, data la sua giovane età. E con quale spessore. Nicola Ruben Montini è nato nel 1986, a Oristano, e ha già varcato con i suoi lavori le soglie di numerosi musei e gallerie nazionali e internazionali. Ora è qui, in una galleria mestrina affollata di gente chiassosa. Mi chiedo se sia effettivamente questo il modo di “fruire” (possibile che non mi venga in mente nessun altro termine?) una performance.
Ruben ci fa dono di due azioni performative, della durata di un’ora ciascuno. Adeguamento ad una superficie reale 1 e 2.
In entrambe egli è nudo. Nella prima lo trovo seduto su una sedia di metallo vecchio stile, le sue natiche sono schiacciate tra le volute dello schienale, dà la schiena al pubblico e il volto al muro. Il palmo delle mani, la sua fronte, la barba, si appoggiano ripetutamente al muro della galleria: sembra un’ “anthropométrie-spectacle”, ma senza il colore delle azioni di Klein.
Il pubblico non si può avvicinare più di tanto a lui, pertanto dapprincipio non riesco a vederlo bene. Ruben ad intervalli regolari – credo non passi più di un minuto tra uno e l’altro – urla. Cerco di andargli accanto, vorrei vederne il viso: quando ci riesco la sua espressione è un misto di sofferenza e concentrazione. Il suo urlo è reale. A pieni polmoni. Convincente. (Il bambino nel passeggino pochi passi dietro a me si mette a piangere, spaventato.) Ogni urlo ha una durata ben precisa, è forte, penetra dentro, anche se non sei lì ad osservarlo da dietro la sedia ma stai guardando altrove… l’installazione di giornali internazionali aperti su notizie della cronaca italiana degli ultimi venti giorni è lì a fianco (Lascia ch’io pianga, mia cruda sorte, e che sospiri la libertà, 2013. 65 giornali quotidiani archiviati dal 24 gennaio al 24 marzo 2013).
Durante la seconda performance Ruben striscia con fatica, quasi stesse avanzando in trincea proteggendosi dai colpi di un nemico, tra le gambe della variegata umanità radunata nella galleria. Supino, si solleva sui gomiti, e sembra voglia fare suo il pavimento. Si sporca, nudo com’è, mentre incede tra le impronte lasciate dalle nostre scarpe (fuori ha iniziato a piovere).
E finalmente riesco a vedere la scritta tatuata a caratteri incerti, ma indubbiamente leggibili, sulla sua coscia sinistra. FROCIO.
Partiamo da qui: Ruben non scherza. Ha preso il suo corpo e l’ha scaraventato come un proiettile addosso al muro di gomma che tutti noi, lì, spettatori in piedi a fianco a lui, rappresentiamo. Una società (composta non solo dal popolo che non ha più nulla di sovrano, ma soprattutto dalle istituzioni che dovrebbero tutelare i diritti e la dignità di quel popolo) che rimane a guardare, più o meno silenziosamente, che alza la voce per rivendicazioni talvolta prive di spessore morale mentre gira lo sguardo dall’altra parte di fronte a soprusi compiuti alla luce del sole.
Artista, omosessuale, uomo che ha deciso di fare del proprio corpo, della propria pelle , la sua materia espressiva. Arte politica la intende lui, nell’accezione con cui il femminismo degli anni ’70 intendeva che “il personale è politico”: l’input parte dall’esperienza del singolo per divenire esperienza collettiva, la vicenda personale muta di livello e acquisisce un aspetto ed una valenza più ampia, globale.
Nel 2009 Ruben, in un’altra galleria, sempre a Mestre, si è calato i pantaloni di fronte al nugolo di spettatori accorsi per l’occasione, si è seduto di fronte a loro, ha indossato i guanti di lattice e, caricata d’inchiostro la pistola, si è tatuato a mano libera su una gamba l’epiteto tra i più spregevoli con il quale vengono insultati gli omosessuali.
Quindi Ruben non può semplicemente scriversi con un pennarello FROCIO sul corpo, ma se lo deve autoinfliggere in maniera indelebile. Colpisce la sua pelle per incanalare l’attenzione verso un tema doloroso. La violenza verbale fa male quasi quanto quella fisica. E’ violenza psicologica.
Quell’incisione è una performance reiterata: ogni volta che Ruben esporrà se stesso noi non potremo fare a meno di ricordare. E provare un po’ di vergogna.
Alla luce di questa sua intenzionalità mediatica sono ora in grado di ascoltare le parole che le ragazze (in vece dell’artista) leggono fino allo sfinimento dall’alto dei trampoli: brani che parlano delle stragi di Falcone e Borsellino, di un’Italia che cade sotto i colpi dell’indifferenza. Ma come tutto ciò che è scritto aiuta a ricordare, così loro continueranno a leggere perché, anche se nessuno ascolta, la parola pronunciata è funzionale al “non dimenticare”. Il mio cuore è più stanco della mia voce.
Il tappeto che ci ripete di continuo COSA RESTA DI NOI? in realtà si intitola Agli amanti..e anche a quelli d’Italia. E’ un’opera del 2013 (Ruben mi dirà alcuni giorni dopo che sono state delle artigiane sarde a realizzarlo a telaio) che davvero non ha più bisogno di alcuna spiegazione.
Nel frattempo sopra l’opera si sono seduti quattro ragazzi, come l’avessero scambiata per un plaid da pic-nic. Uno di loro ha un guinzaglio da cane al collo, un altro tiene l’estremità opposta: mi dicono essere un “omaggio” alla performance Made in China, part 2 che Ruben ha tenuto a Londra nel 2008.
La galleria ospita anche un video. Tip-Tap (2008, performance di 20 minuti) è una delle azioni performative più belle, a mio parere, tra quelle di Ruben, che io conosca. Nella più completa nudità tenta di celare gli attributi sessuali in mezzo alle gambe: indossa un paio di scarpe da donna alle quali sono stati tagliati i tacchi. Il suo incedere si trasforma in una danza pericolosa, continuamente in bilico, a metà tra il sostegno della punta dei piedi e i tacchi che Ruben, dopo ogni passo, continua a riposizionare sotto le scarpe. E’ un lavoro esteticamente perfetto. L’artista è così drammaticamente esposto, e fragile, da mettere in crisi l’osservatore stesso, che teme una caduta come fosse la propria.
L’interrogativo va oltre l’identità di genere. L’azione fa eco a Vito Acconci, quando completamente nudo anch’esso nascondeva il sesso e, truccato da donna, usava movenze che ricalcavano l’universo femminile. Ruben scarnifica ancora di più il gesto, avulso da qualsiasi travestimento che ne alteri l’aspetto esteriore, per giungere al nocciolo della questione in maniera ancora più diretta. Senza vestiti – e senza attributi – significa anche senza filtri, senza protezione.
Le due performance di Ruben, Adeguamento ad una superficie reale, mi riportano alla mente un’immagine: quella di Valie Export. Artista, performer tra le più irriverenti degli anni ’70, nella serie di scatti intitolata Body Configuration prende la forma dell’arredo urbano, creando una continuità ideale con esso, concettualmente divenendo un tutt’uno con l’architettura. Nelle foto Valie inarca la schiena e segue la curva di un marciapiede. Stende le braccia in avanti, si piega sulle ginocchia e riprende l’andamento della scalinata o del muretto su cui si appoggia rigida.
Il corpo di Ruben, così come lo fu il corpo di Valie, è espressione esternalizzata di un’interiorità pregna di significato.
Ora, la critica che muovo non è affatto nei confronti di Ruben, di cui ho apprezzato concetti e azioni, ma della “svariata umanità” presente alla vernice. Gli eventi mondani come le inaugurazioni delle mostre generano situazioni a dir poco ributtanti, talvolta. Alla “categoria Wealth” (come l’ha chiamata un caro amico) fanno parte queste donne e uomini decisamente preoccupati che il loro “outfit” rispecchi in tutto e per tutto il loro “mood”, il loro “knowhow”…
La performance, essendo un’opera che ha in sé il valore della transitorietà e che come tale se non è vista nel momento stesso in cui viene compiuta perde la sua stessa forza, ha un bisogno primario che è quello di avere un pubblico.
Il corpo è forse il tramite più sincero per far passare un messaggio. E il pubblico è il mezzo attraverso il quale l’artista veicola il suo messaggio.
Ma ora mi chiedo: “quale” pubblico? “Come” pubblico?
Persone più o meno consapevoli di ciò che sta succedendo (la galleria è un habitat protetto per far vivere questi brevissimi istanti di vita artistica, la gente che frequenta questo posti “dovrebbe” sapere cosa corre il rischio di trovarsi di fronte – la nudità integrale è l’ultimo dei problemi! – ma allora mi chiedo perché percepivo così poca empatia, una quasi totale indifferenza, e mancanza di rispetto nei confronti dell’azione performativa e, ancor prima, del performer stesso.
Intendendo il rapporto tra performer e spettatore a doppio flusso, di andata e ritorno, mi piacerebbe davvero sapere quale sia la percezione di Ruben, così come di ogni altro artista che mette in gioco se stesso nella body art, nei confronti del Pubblico. Se è vero che questa massa di spettatori, ordinata o informe, devota o scalmanata che sia, è di nutrimento all’azione performativa stessa. O se a volte fosse meglio che nessuno, nessuno vedesse, lasciando il peso dell’azione gravare soltanto su se stesso.
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The Crisis and Crisis in the life of an actress – Personale di Nicola Ruben Montini alla Galleria Massimodeluca, Mestre. Fino al 17 maggio.
Photo by Silvia Mariotti
Courtesy Galleria Massimodeluca, Mestre
http://www.massimodeluca.it/index.php?/future/nicola-ruben-montini/